Damien Hirst – A Thousand Years (1989)
Immagine: Photographed by Roger Wooldridge © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2012 – http://www.damienhirst.com/a-thousand-years

di Giordano Pariti.

Il loop del ciclo della vita nel senso basilare di nascita, crescita e morte è stato esibito da Damien Hirst in A Thousand Years (1989).

Pochi gli elementi che compongono l’opera: una grande teca di vetro e ferro, suddivisa in due ambienti da un vetro forato, una testa di mucca grondante di sangue, una lampada antizanzare ed un cubo-incubatrice di larve di mosche.

Le larve di mosca nascono, attratte dal sangue migrano in un nuovo ambiente, si nutrono, crescono ed infine muoiono fulminate dalla lampada antizanzare.

Fra le differenti interpretazioni che l’opera mi provoca ne raccolgo alcune che mi hanno fortemente coinvolto:

si può esperire la morte come mero atto conclusivo di un processo vitale che si ripete sempre nello stesso modo finché la stessa vita è presente;

si è costretti a prendere coscienza (in parallelo al ciclo riprodotto dagli espedienti basici dell’opera) della propria condizione di mortale, aprendo ad una possibile ambiguità o ambivalenza semantica in cui il confine tra l’umanità e l’animale si supera nella feroce consapevolezza di un comune destino, al di là di una pretesa o supposta superiorità creazionale.

Ciò che tuttavia distingue e differenzia la nostra condizione dalle mosche è la possibilità di colmare di senso i vari stadi stadi della vita e, oltrepassando ciò che gli stessi occhi sono costretti ad osservare, tentare di schiudere ad ulteriori dimensioni metafisiche anche il feroce atto finale.

Queste riflessioni sono soltanto una minima parte di ciò che l’ermeneutica emozionale di Hirst è capace di evocare; A Thousand years innesca nello spettatore un corto circuito, un’attrazione/repulsione tra l’intimità delle proprie convinzioni esistenziali e la cruda esibizione della poetica dell’artista sul concetto di vita e morte.