Inauguriamo una nuova sezione – L’arte e l’assenza – a cura di Giordano Pariti

Ogni giorno nello specchio contemplo l’opera della morte” – J. Cocteau

L’artista vate, filosofo, rabdomante da sempre ha tentato di raccontare l’inerarrabile, rappresentare l’irrappresentabile, immaginare l’inimmaginabile, spingendo la sua ricerca in ambiti dove le possibilità delle narrazioni hanno spesso intrapreso strade sconosciute tuttavia affascinanti e in cui il vuoto, l’assenza, o più ferinamente la morte, sono state accuratamente indagate per esorcizzare, denunciare, riflettere o semplicemente consolare.

Ho accettato incautamente l’invito a scrivere d’arte in questa nuova rubrica “La creatività racconta il vuoto” permettendomi di spaziare su tematiche che mi hanno fortemente interessato e coinvolto sia come autore di opere sull’elaborazione del lutto (realizzate in collaborazione con “Uno sguardo al cielo”), sia come fruitore e appassionato di arte contemporanea.

Ogni opera raccontata sarà accompagnata da alcuni miei pensieri che non si arrogano alcuna pretesa di spiegare o di sostituirsi all’intento dell’artista, configurandosi unicamente come emozioni, riflessioni che scaturiscono dal mio rapporto personale con l’opera in questione.

Le parole di Cocteau con cui apro questa rubrica si offrono ad essere declinate (magari anche forzatamente) in un senso a me molto caro e familiare: contemplare l’opera della morte non significa in modo esclusivo ravvisare sul proprio corpo i segni del tempo che avanza ma è anche osservare ciò che la morte sottrae, gli affetti che drammaticamente ruba, le lacrime e le curve di sorrisi inesplorati che serenamente o dannatamente imprime sulle nostre identità.

#1 Damien Hirst – A Thousand Years

Damien Hirst - A Thousand Years (1989) Immagine: Photographed by Roger Wooldridge © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2012    -   http://www.damienhirst.com/a-thousand-years

Damien Hirst – A Thousand Years (1989)
Immagine: Photographed by Roger Wooldridge © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS 2012 – http://www.damienhirst.com/a-thousand-years

Il loop del ciclo della vita nel senso basilare di nascita, crescita e morte è stato esibito da Damien Hirst in A Thousand Years (1989).

Pochi gli elementi che compongono l’opera: una grande teca di vetro e ferro, suddivisa in due ambienti da un vetro forato, una testa di mucca grondante di sangue, una lampada antizanzare ed un cubo-incubatrice di larve di mosche.

Le larve di mosca nascono, attratte dal sangue migrano in un nuovo ambiente, si nutrono, crescono ed infine muoiono fulminate dalla lampada antizanzare.

Fra le differenti interpretazioni che l’opera mi provoca ne raccolgo alcune che mi hanno fortemente coinvolto:

si può esperire la morte come mero atto conclusivo di un processo vitale che si ripete sempre nello stesso modo finché la stessa vita è presente;

si è costretti a prendere coscienza (in parallelo al ciclo riprodotto dagli espedienti basici dell’opera) della propria condizione di mortale, aprendo ad una possibile ambiguità o ambivalenza semantica in cui il confine tra l’umanità e l’animale si supera nella feroce consapevolezza di un comune destino, al di là di una pretesa o supposta superiorità creazionale.

Ciò che tuttavia distingue e differenzia la nostra condizione dalle mosche è la possibilità di colmare di senso i vari stadi stadi della vita e, oltrepassando ciò che gli stessi occhi sono costretti ad osservare, tentare di schiudere ad ulteriori dimensioni metafisiche anche il feroce atto finale.

Queste riflessioni sono soltanto una minima parte di ciò che l’ermeneutica emozionale di Hirst è capace di evocare; A Thousand years innesca nello spettatore un corto circuito, un’attrazione/repulsione tra l’intimità delle proprie convinzioni esistenziali e la cruda esibizione della poetica dell’artista sul concetto di vita e morte.

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