Credo che siamo ormai divenuti tutti consapevoli di un’evidenza innegabile: la società contemporanea è caratterizzata da una profonda violenza. Essa corrisponde non solo ad un fatto dalle molteplici spiegazioni sociali e psicologiche ma, dal mio punto di vista, ad una delle molteplici morti che caratterizzano l’umanità attuale. In una rubrica che si occupa da tempo di morte, di lutto e di perdita diviene importante, soprattutto nella situazione attuale, osservare la vita e la morte nei suoi molteplici aspetti. E quando la morte umana e sociale incombe su un’umanità che appare sempre più ingessata ed indifesa non si può fare altro che fermarsi e cercare di riflettere. Da tempo siamo preoccupati per gli agiti di cui spesso leggiamo nei fatti di cronaca i quali, peraltro, in molti casi, vedono protagonisti minori anche giovanissimi: nel 2018 due ragazzi, di cui il più giovane appena tredicenne, hanno dato fuoco ad un senzatetto; nell’aprile di circa due anni fa degli studenti liceali hanno segregato in casa e picchiato a morte un anziano. Ci colpisce da molto tempo l’efferatezza di questi crimini e ci chiediamo come poter prevenire, contrastare il dilagare di questi episodi che stanno divenendo tutt’altro che sporadici. Alla base delle nostre riflessioni vi è tuttavia, a mio parere, un errore concettuale: ci interroghiamo su come prevenire episodi di violenza manifesta pensando che essi costituiscano l’esito, per alcune persone inevitabile, di un percorso di vita e di attitudini già segnato da episodi di aggressività. Questo è vero solo in parte. Molti dei ragazzi che si sono macchiati di reati di violenza risultano incensurati, spesso, a detta di tutti, addirittura insospettabili. Gli episodi di violenza che ritroviamo nei giornali ogni giorno sono sì il frutto di un lungo percorso costellato da varie forme di violenza e di aggressività, non solo fisica ma anche verbale. Essi rappresentano la parte finale di un percorso personale caratterizzato da una violenza di pensiero che autorizza e legittima tutte le forme di aggressività latenti. Se a tutto questo aggiungiamo che, in questa epoca storica, il clima sociale e politico consente, per certi versi fomenta, sentimenti ed atteggiamenti quali la diffidenza, l’evitamento, il rancore, possiamo comprendere come sia facile che essi si radichino nella mente di adolescenti che già con grande fatica stanno strutturando la loro personalità e sono alla ricerca di punti fermi. È oramai divenuto virale il video di Beppe Grillo che difende suo figlio dall’accusa di stupro di gruppo ai danni di una ragazza poco più che adolescente. La magistratura deve compiere il suo dovere, al quale nessuno di noi può sostituirsi. Ma il punto non è l’accusa, né la condanna, né la difesa, né l’assoluzione. Il problema è un’attenzione all’altro, ai suoi sentimenti, alla sua intimità, che vengono violati ogni volta che si normalizza uno sguardo, una parola, una bevuta, una ragazzata, i quali, però, hanno lasciato uno strascico di dolore dietro di sé. Voglio dire che qualcosa può essere reato o non esserlo, ma non esiste ancora una scienza o una sentenza che possano misurare il dolore. Anche il dolore è morte: della propria dignità, del proprio desiderio, della propria libertà di essere e decidere. E solo una sensibilità capace di accogliere l’altro, di amarlo così come si ama se stessi può salvarlo da questa morte. Vi è un’altra considerazione da fare: nel nostro mondo governato dai media, le relazioni in presenza lasciano in gran parte spazio alle relazioni virtuali, a prescindere dalla pandemia. Se da un lato questo permette di relazionarsi con una quantità enorme di persone provenienti da qualsiasi parte del mondo in frazioni di secondo, dall’altra parte questa modalità impoverisce la dimensione delle relazioni tra persone reali che interagiscono guardandosi negli occhi. L’Altro immaginato, per quanto reale da qualche parte del pianeta, restituisce a chi interagisce virtualmente con lui l’illusione della sua immaterialità: il linguaggio colmo di giudizio e di odio che a volte i ragazzi utilizzano trova spesso le sue fondamenta nell’errata percezione che esso non possa ferire chi non è presente materialmente davanti a noi. Ma il linguaggio è il punto. Il pensiero, oggi, è il punto. Comunicare con odio genera ondate diffuse di sofferenza, al pari della violenza fisica. La dematerializzazione dell’altro sancisce la morte della sua umanità. Non basta spiegare a bambini ed adolescenti che rivolgersi con odio e disprezzo ai propri compagni ed amici è sbagliato; è importante riportare questi giovani ad una consapevolezza emotiva, ad una lettura empatica delle loro relazioni. È importante fare capire loro nella pratica quotidiana che l’Altro non è il semplice destinatario della nostra relazione, ma deve rappresentarne una sorta di guida, perché la continuazione della nostra relazione non può prescindere dalla consapevolezza del suo benessere emotivo. Agli adulti di oggi spetta un ingrato compito, ovvero quello di invertire una pericolosa tendenza che governa le relazioni umane e che le fa procedere dall’interno all’esterno, cioè dal sentire e dalle prerogative personali verso l’altro. La vera rivoluzione sarà, nel tempo, far capire alle giovani generazioni che le relazioni autentiche hanno la necessità di procedere dall’esterno all’interno: perché è la lettura dei bisogni e delle intenzioni dell’altro che legittima il bisogno di relazione stesso e che determina l’arricchimento del nostro dialogo interiore, del nostro pensiero e, in ultima analisi, del nostro verbalizzare ed agire.