Io sono in realtà un novizio della poesia. Ho cominciato a leggerla con qualche dedizione e continuità da appena una quindicina d’anni, andando a tentoni, senza guida, se non i provvidi regali di amiche e amici più usi, non proprio appena usciti dall’uovo come me. In questo breve percorso mi è capitato, ad esempio riguardo Mariangela Gualtieri, di pensare ma come è possibile che noi abbiamo un tale tesoro nelle mani e non lo degniamo di uno sguardo? Non ne siamo profondamente fieri, non rendiamo onore. Non (ri)conoscere la propria ricchezza è un modo di essere poveri. Ritengo che Ilaria Seclì sia uno di questi tesori.
Ilaria, oltre a pubblicare libri, scrive sul suo blog, il cui nome, come si usa dire, vale da solo il prezzo del biglietto: Le ragioni dell’acqua. Mi è parsa una lampara sul mare, una mediatrice del sacro non appena l’ho sentita recitare la meravigliosa Frammento dal libro della torre, una sera di qualche anno fa, all’Orto dei Tu’rat.
Sono poesie dense di mistero, di eco e di risonanze, talvolta oscure, spiazzanti, ma sempre collegate a una sorgente di evidente potenza. In un’epoca di mitologie plastificate di supereroi (e credo dovremmo interrogarci sul motivo di tanta ammirazione verso questi capricciosi dei per bambini), gli unici superpoteri concreti che abbiamo a disposizione sono quelli delle persone come Ilaria, capaci di vedere negli interstizi fra i sassi, nella polvere traversata da un raggio nella stanza, nelle cose abbandonate nel tempo, capaci di decifrare il bosco. Altri ce ne saranno ancor più nascosti, ancor più visibili, perduti.
Qui vi propongo una cosa che ha pubblicato di recente, che trovo molto adatta ai tempi bui che stiamo attraversando. Beati coloro che gettano relitti galleggianti nel mare in tempesta, perché qualcuno vi si aggrapperà.
Io ho preghiere per gli Angeli
farmi diventare migliore chiedo
alleggerire lo scotto di essere straniera,
ovunque inadatta, per colpe che nessun
artificiere eradica. In macchina li prego
prima di farmi trapassare da ordigni
perfetti di sorridente educata ipocrisia
prima di essere immessa nel fuoco di lingue
caudine, nella guerra tra poveri a far la parte
del soldatino sperso che non ce la fa a sparare.
Non voglio essere nessuno, fate pure.
Potevo lievitare sì, farmi batterio nel ventre
di pasta madre, riscattarmi con questo o
quel successo frutto del mio seno,
del mio grembo. Sono qui invece
a mondare pavimenti, evitare almeno
la morte delle piante, sistemare al meglio
l’altare di ninnoli di vecchie vite,
mandare SOS ad altri sopravvissuti,
saluti, chiedere se sono ancora in vita
parlare col gatto certa di una più convinta
e pura comprensione, di un più innocente
innocuo amore.