Romanzo di Haruki Murakami

Si può parlare di morte in molti modi. Ma quando lo si riesce a fare costruendo un testo profondo, pieno di sofferenza e di speranza, come in questo romanzo di Murakami, accade che, allora, parlare di morte divenga un’esperienza toccante, capace di far combaciare tutti i confini della propria esistenza.

Watanabe è uno studente diciassettenne quando il suo migliore amico, Kizuki, si suicida, senza alcun motivo apparente. Questo evento, sconvolgente nella sua portata emotiva, accompagna Watanabe negli anni successivi della sua vita durante i quali egli decide di occuparsi di chi resta, come ad esempio di Naoko, la ragazza di Kizuki, ma anche delle persone che appaiono ugualmente segnate dal medesimo destino di sofferenza, come Midori, eccentrica compagna di università la quale, nel giro di poco tempo, perde entrambi i genitori a causa della stessa malattia.

Non è un romanzo sulla morte. È un romanzo che sa utilizzare la morte come pretesto per parlare della vita e di ciò che la rende un’esperienza unica nel suo genere. Come, ad esempio, l’amore. Watanabe si innamora perdutamente di Naoko: forse perché gli ricorda il suo migliore amico, che “avrà per sempre diciassette anni”, mentre lui ha già raggiunto i venti, forse perché rappresenta la stabilità affettiva in mezzo a tante avventure di una notte, forse perché rimane l’unica vera relazione incompiuta ad un passo dal realizzarsi. Perché, proprio dopo aver consumato la loro prima ed unica notte d’amore, Naoko viene ricoverata in una clinica psichiatrica. Comincerà una significativa corrispondenza tra i due giovani, colma di letture introspettive e promesse soffocate.

La vita e la morte sono un complesso intreccio di destini, di responsabilità, di desideri e di sogni infranti. Cos’è tanto speciale in questo romanzo? La geniale capacità di parlare della quotidianità della vita e della morte coinvolgendo il lettore a tal punto da non riuscire a staccare lo sguardo, ma soprattutto l’anima, da questo racconto così vero e così sofferto.

Norwegian wood è il romanzo forse più personale di Murakami. Con parole delicate, ma allo stesso tempo assolutamente contemporanee e realistiche, sa descrivere perfettamente lo stato d’animo di un gruppo di adolescenti, alle prese con tutte le decisioni più importanti che riguardano la loro vita, anche quando tutto intorno a loro sembra parlare nient’altro che di morte.

Si muore prematuramente, si muore in età adulta, si muore lasciando dietro di sé un grande vuoto colmato solo da una sofferenza profondissima. Eppure, si può continuare a vivere. Qualcuno non ce la fa, travolto dai fantasmi del passato e dalla paura di dover, presto o tardi, condividere lo stesso destino di morte che ha toccato i propri cari. Ma qualcuno ce la fa, anche se a prezzo di una sofferenza che sconvolge l’esistenza. Come descrive in maniera toccante la storia di Reiko per la quale, l’aver trovato, da bambina, il corpo della sorella, che lei considerava perfetta, appeso ad una corda nella sua camera da letto, costituisce un evento irreversibile, fino a dover placare le voci nella sua mente che hanno distrutto il suo matrimonio, la sua promettente carriera di musicista, persino il rapporto con sua figlia, all’interno della medesima clinica psichiatrica di Naoko. Tutti, uno dopo l’altro, sono costretti ad andare. Chi resta? Cosa resta?

Resta la capacità di soffrire. Perché la sofferenza non è il destino al quale si devono rassegnare coloro che sopravvivono. In realtà, la possibilità di ricostruirsi deriva proprio dalla capacità di assorbire su di sé tutta la sofferenza possibile, quella del passato e quella del presente. La sofferenza farà sempre parte della propria vita. Ma, come dice Reiko, quella sofferenza non c’entra nulla con le opportunità di felicità che aspettano ciascuno. Quella felicità va colta, ricercata, vissuta, pur nella consapevolezza che la sofferenza contribuisce a forgiare la nostra anima, a dare valore al nostro passato, a raccontarci di come siamo stati in grado di attraversare il dolore, senza identificarci con esso.

La storia di Watanabe è la nostra storia, è la storia di tutti coloro che, presto o tardi, hanno perso le persone che hanno amato, che tuttora vivono nel loro ricordo. È una storia che parla di una grande sofferenza e contemporaneamente anche di una grande speranza. Quella di saper cogliere il meglio da ogni esperienza. Anche ascoltare una canzone triste come Norwegian wood, suonata alla chitarra in una notte d’inverno da una musicista fallita può rivelarsi un’esperienza dolorosa e sublime al tempo stesso. A renderlo possibile è la capacità di aprire la propria anima, per accogliere tutte le sfumature di un’esistenza che, anche quando non riusciamo a coglierlo, è piena di significati nascosti, di prospettive. Ogni incontro, ogni altra vita che si intrecci alla nostra è il segno di un destino da costruire, con pazienza e con speranza. A prescindere dalla morte che ci attende.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia e docente del Master Tutela, diritti e protezione dei minori

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