Immagine: Marina Abramovic, Balkan Baroque (1997) – da Arzyncampo.altervista.org

di Giordano Pariti

Perchè alla fine sei davvero solo, qualunque cosa tu faccia”. M. Abramovic

1500 ossa bovine, poste l’una sull’altra, a formare una piccola montagna di morte. Sulla sommità di questa catasta di dolore, Marina Abramovic, vestita di bianco, di un bianco lercio di sangue, con una spazzola metallica si ostina a rimuovere i brandelli di carne rimasti saldamente avvinghiati alle ossa. I denti ferrati ed una vasca di zinco colma d’acqua come unici arnesi per tentare di mondare una vergogna ed espiare una colpa irredimibile. 

Balkan Baroque, installazione presentata alla Biennale di Venezia nel 1997, mette in scena l’orrore della guerra civile nella ex-Jugoslavia; una ostilità scellerata e fratricida in cui, nel nome di una differente appartenenza etnica, religiosa o politica, gli uomini hanno massacrato i fratelli perpetuando atroci combattimenti, disumane e violente privazioni.

Nella buia cantina dove si svolge l’azione performativa aleggia un odore nauseabondo di carne putrefatta, segno insostenibile di una presenza di morte.

Per sei ore al giorno (per un totale di quattro giorni consecutivi) l’artista intona lamenti e litanie balcaniche mentre pulisce dai vermi e dalla carne le ossa sanguinolente con spazzola, acqua e sapone. Fiaccata dallo sforzo e dalla commozione, spesso la sua voce è rotta dal pianto, tenta di ridare un impossibile candore a ciò che l’onta della guerra ha irrimediabilmente compromesso.

I resti ossei delle mucche sono il materiale che l’artista utilizza per far rivivere le atrocità di una guerra inenarrabile. Ogni singolo pezzo viene perfettamente pulito, con evidente riferimento alla pulizia etnica del conflitto, e si propone come una sorta di rituale di purificazione etica di sè e del suo popolo.

La performance doveva durare complessivamente sei giorni ma l’Abramovic, nonostante le sue eccezionali doti di resistenza, dopo quattro giorni, esterrefatta, ha ceduto.

Un cedimento che non è stato solo fisico (l’estrema fatica nel raschiare ininterrottamente le ossa e la permanenza in un ambiente angusto e buio, saturo di lancinanti e insalubri odori) ma probabilmente anche psicologico, poiché il dolore nel rivivere le atrocità praticate dagli uomini verso i loro stessi  fratelli è un insopportabile fardello per il suo animo. 

L’artista conduce il visitatore nelle visceri del male, ponendolo di fronte alle nefaste conseguenze della guerra. Odori, sapori, putrefazione e ossa accatastate non sono più quelle del bovino ma quelle dei tanti esseri umani brutalmente annientati dall’empia violenza di un conflitto inaccettabile e folle.