Romanzo di Josè Saramago

In un paese senza nome, allo scoccare della mezzanotte di una notte di fine d’anno, le persone cominciarono a non morire più. E non solo quel giorno. Anche quello seguente e quello dopo ancora e così via per i mesi a venire. All’inizio fu giubilo. Quale sollievo nel non doversi più preparare alla dipartita! Ma per ogni cosa, si sa, c’è il rovescio della medaglia. E il non morire più, per quanto sollazzo potesse donare ad alcuni, cominciò a dare non pochi pensieri ad altri. Intanto per cominciare gli impresari di pompe funebri persero il lavoro. E a nulla valsero le promesse di sovvenzione e di aiuto. Proprio loro, che per secoli e secoli si erano prodigati per la società, occupandosi di dare degna sepoltura a qualsiasi tipo di resto umano, accettando di fare ciò che i più rifuggivano meticolosamente, si ritrovavano ad essere relegati alla categoria di disoccupati. Vi erano poi le case di riposo, programmate per registrare con metodica quotidianità ingressi e dipartite e poi nuovi ingressi e così via, che improvvisamente si trovarono a non poter effettuare alcuna dimissione. Per non parlare delle famiglie delle persone malate le quali, non avendo alcuna prospettiva di miglioramento, guarigione né, a quel punto, di passaggio a miglior vita, continuavano a pesare sulle spalle dei figli e dei nipoti stanchi di una situazione che, per incredibile che fosse, si prospettava ben peggiore della morte stessa.

Attendere di morire senza poterlo fare era divenuta una condizione insostenibile. Qualcuno, allora, decise di varcare il confine; di provare a vedere se, varcata la frontiera, vigesse la stessa sorte. E, come per miracolo, una volta usciti dal confine del paese, ecco che la morte tornava, più ineluttabile di prima. La questione diventò spinosa: chi avrebbe gestito, in una simile situazione, la processione di persone che desideravano farla finita per scelta? E, del resto, nemmeno appariva giusto che un paese dovesse accollarsi le morti e le sepolture di chi veniva dal paese tal altro.

Il romanzo prosegue, non senza colpi di scena, scritto con un linguaggio e con una vivacità che sembrano appartenere ai nostri giorni.

Cosa ne sarebbe di noi se la morte non esistesse più?  Quali prerogative avrebbe la nostra vita, quali preoccupazioni, quali passaggi?  Saremmo liberi dal destino? Oppure, saremmo in balia di chi coglierebbe semplicemente l’ulteriore occasione di trasformare la miseria umana in un tornaconto personale?

A queste domande non c’è risposta. O meglio, la morte le risposte le ha tutte. In questo romanzo viene descritta come una donna capricciosa e volubile, alle prese con una popolazione che vorrebbe sbeffeggiarla, fingere di non temerla, sfidarla ma che, alla fine, si deve piegare al suo volere e tornare a guardarla con la stessa deferenza e dolore che ella pretende dai secoli dei secoli.

Forse c’è un modo per domarla: magari tentando di sedurla, lusingandola, fingendo di assecondarla per poi lasciarla sola e inappagata. Ma è tutto inutile. La nera signora sa sempre come prendere la sua rivincita.

Smettere di morire sarebbe la soluzione? In questo testo magistrale sembrerebbe di no. O, per lo meno, perderebbero senso tutti i pilastri sui quali abbiamo fondato la nostra vita: la religione, il denaro, la prevenzione, le stesse relazioni umane. Del resto, anche nell’immaginario comune l’eternità è vista come qualcosa che deve pur avere una fine, anche se sancita dalla morte. Perché ciò che avviene oltre il confine è tutto nuovo e, in ogni caso, ancora da scrivere. Ma quando l’eternità si fa reale e tangibile, ci spaventa davvero. Immaginiamo di dover lavorare per l’eternità, o di dover invecchiare per l’eternità. Questo pensiero, anche se non nel fisico, ci ucciderebbe comunque.

L’eternità si dipana in una dimensione temporale infinita che, al contrario delle più comuni confessioni religiose, non trova sollievo nella redenzione, in un cambio di rotta che, ancorché non provato, è, nei fatti, ciò che alimenta la nostra speranza nel tenerci aggrappati alla vita. O, al contrario, nell’aspettare la morte, nel desiderarla.

Non c’è domanda, non c’è risposta. Solo un pensiero che non mi abbandona. Questo è solo un romanzo. La morte c’è stata, c’è e ci sarà. Ma come sarebbe la nostra vita se si potesse cancellare con un colpo di spugna non la morte, ma la paura di morire?

Monica Betti

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