Quel che è certo è che Franco Arminio non tace, non scompare. Interviene con costanza e continuità su diversi social media, dal 2016 ha pubblicato un libro all’anno, due nel 2019. Ideatore e instancabile animatore del festival La luna e i calanchi, negli ultimi anni ha fatto un numero enorme di serate poetiche in giro per tutta l’Italia, con una dedizione e una generosità di sé talmente copiosa da risultare quasi sospetta. Se vi capita l’occasione non fatevela sfuggire, sono serate piene di tante cose e di non so cosa, semplici e felici. Il perdurante successo di questa sua attività, che definirei pastorale ed ecumenica, meriterebbe un’analisi approfondita, ma fatta con altrettanta generosità, con altrettanto cuore. Uno dei tanti fattori, credo, uno che mi piace dire qui, è che in queste serate si esperisce la libertà di amare il proprio paese, di farlo assieme ad altri, di condividere con concittadini un sentimento e una gratitudine che sono visti un po’ come inappropriati, sconvenienti, nell’usuale palcoscenico del giusto prefabbricato. È una specie di riunione di italiani anonimi, in cui il dialetto che si è conservato a stento è un vivo tesoro di tutti e di ciascuno, in cui l’eredità culturale popolare è riconosciuta e salutata da tutti col rispetto che le è dovuto.

Le poesie di Franco Arminio sono spesso abitate dai morti. Non avete che da esplorare la bibliografia, i titoli parlano (anche il mistero parla). Qui vi propongo qualche brano da un libro che mi è ricapitato in mano per caso di recente, come chiamato dal filo delle Cose dell’altro mondo.

Il tuo respiro misuralo a millenni.                                               

vai con la foglia che spuntò                                               

per prima sulla terra.                                                   

vai con gli uccelli che videro

un cielo che non è questo.

soffia sull’ultimo granello

del mondo.  

il tuo paese è questa immensità.  

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