di Daria Cozzi

Una vacanza che si trasforma in un addio

Quattro giorni e tre notti è il tempo della tragica vicenda che ha visto protagonista Daria, l’autrice del libro che durante una vacanza a Singapore con suo figlio, di soli dieci anni, ha assistito il compagno Vittorio e si è trovata a confrontarsi con il difficile compito di comunicare la sua morte al loro bambino. Singapore, un giorno di sole, un giorno apparentemente spensierato che si è trasformato nella perdita di un compagno, di un padre, di un progetto di vita, di una famiglia unita, di un sogno felice. Il compagno di Daria, Vittorio, è stato colpito da una violenta emorragia celebrale, i due innamorati si ritrovano insieme dalla stanza di albergo a quella dell‘ospedale, la città che avevano tanto desiderato di visitare la donna la vede soltanto dalla finestra di quella camera ma nulla ha più senso, se non le emozioni che la tengono legata ad una persona, di cui si vede solo il respiro muovere grazie ai tubi che forniscono ossigeno. Oltre a questo, però si pone il problema di come comunicare a suo figlio che il padre sta male, molto male. Allora la donna decide di farlo gradualmente, nel bambino emerge subito la speranza e la positività che sono caratteristici della fanciullezza “se papà, sta molto male allora portiamolo in Italia, magari lì lo sapranno curare meglio”, “No tesoro, qui danno le migliori cure a papà solo che è molto malato, non so quanto riuscirà a stare ancora con noi”. Daria nell’intervista confida che seppure volesse essere sincera e rendere partecipe il figlio di quello che stava avvenendo nella sua famiglia, gli volle risparmiare il dolore di vedere il padre circondato dai tubi che lo tenevano in vita. La notizia della morte anch‘essa avvenne per gradi, il personale medico si prese cura del corpo di Vittorio, lo rivestì e preparò in modo che il figlio potesse dargli l‘ultimo saluto. Daria non disse al bambino che il padre era morto, scelse che lo vedesse vestito e pulito per far sì che il figlio non subisse un forte impatto con un’immagine che neanche lei riconosceva più. La donna disse al figlio che avrebbe potuto parlare al papà, anche se lui non avrebbe potuto rispondergli e guardarlo a sua volta ma che gli avrebbero fatto piacere le sue parole. Soltanto il giorno dopo comunicò al figlio l‘avvenuta morte. Daria mi ha raccontato che i bambini sanno cosa sono in grado di sopportare e cosa no e questo gli adulti spesso lo sottovalutano. Il figlio non ha mai voluto parlare dell‘accaduto, né leggere il libro scritto dalla mamma, sino a che non ha raggiunto la maggiore età. Confrontandosi con altre famiglie dove vi erano bambini piccoli che hanno subito la morte di un genitore, l‘autrice ha constatato il medesimo comportamento da parte dei figli. E‘ come se i bambini avessero sospeso il lutto per poi aprirsi ad esso e confidarsi con gli altri soltanto in età adulta.

Giada Zucchini, psicologa

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