Romanzo di Edoardo Albinati

A cura di Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia

La notte del 30 settembre del 1975, la comunità romana viene sconvolta da una terribile scoperta: nel bagagliaio di una macchina vengono rinvenuti i corpi di due giovani ragazze, uno dei quali privo di vita. Questo evento, per tanti versi, sancirà un prima e un dopo.
La strage del Circeo è il testo-pretesto che Edoardo Albinati coglie per narrare, in maniera magistrale, luci e ombre di una società, quella borghese, che, fin dal dopoguerra, ha ricercato un riscatto forse mai arrivato a compimento.
Albinati è stato casualmente compagno di scuola di coloro che sono stati identificati come i responsabili del massacro. Giovani benestanti, di buona famiglia, che, al pari dell’autore, hanno frequentato una prestigiosa scuola privata cattolica.
È un testo lungo, intenso, a tratti doloroso quello che Edoardo Albinati è riuscito a costruire e che abbatte un muro importante: quello del perbenismo, di una cultura borghese fortemente votata alle apparenze.
Al di là della strage, che costituirà per sempre una ferita aperta non solo per la città eterna, ma per tutta la nazione, ciò che si percepisce è un’aura di morte e distruzione che connota intere comunità, famiglie, generazioni. Nonostante il tentativo di rilancio, la volontà di creare per i propri figli dati in pasto al Sessantotto un futuro al di sopra di ogni sospetto, le prove maldestre di costruire famiglie compunte e riunite attorno al mito della moralità (o forse sarebbe meglio dire moralismo) e dell’onore, ciò che emerge in tutta la sua potenza è un deposito detritico che ferisce il lettore allo scorrere di ogni pagina.
Tutto ciò in cui le generazioni successive hanno creduto, ovvero che fosse esistito un tempo in cui la distinzione fra buono e cattivo era netta, in cui la sacralità della famiglia sovrastava le inadeguatezze di ciascuno accogliendole amorevolmente, in cui addirittura venisse garantito un riparo effettivo dalle consuetudini e dalle convenienze era tutto falso. Tutto finto. O, se non tutto, buona parte.
La strage del Circeo è un punto di non ritorno che sancisce l’esistenza di un’umanità che perde la sua essenza incarnando il disprezzo dell’altro.
È proprio questo disprezzo che Albinati narra con una dovizia di particolari impressionante. Un disprezzo che non è nato in quella sciagurata notte, ma che è stato coltivato, più o meno consapevolmente, all’interno dei muri dell’indifferenza, in case curate e riscaldate, in famiglie occupate a concedere tutto, risparmiandosi, però, nei sentimenti umani più importanti.
Le origini che si volevano esaltare erano, contemporaneamente, quelle che si volevano reprimere. Non esiste disprezzo più grande di quello che si riserva agli altri, quando i primi che disprezziamo siamo proprio noi stessi.
A perdere la vita in quella villa non è stata solo Rosaria Lopez. Abbiamo perso la vita tutti. Tutti quelli che c’erano, che hanno abitato fieramente quelle mura di perbenismo, e anche tutti coloro che dovevano ancora venire. Siamo nati già morti e non lo sapevamo. Perché siamo nati nella menzogna, nel mito di un passato che ha commesso più stragi ed errori di quanto possiamo immaginare.
Il riscatto che la borghesia degli anni Settanta cercava è quello che devono rincorrere disperatamente le generazioni di oggi. Per non vivere nella paura della morte ma nella speranza di una rinascita. Tutto può essere migliore di com’è, anche se tutto quello che abbiamo attorno ci dice il contrario.
Ci hanno insegnato a riconoscere e ad additare il male assoluto senza spiegarci dove esso nasce. Nasce dentro di noi. Esattamente come il bene. Il male è una parte di umanità inespressa. E non serve a nessuno relegarlo al rango di entità. Il male è umana volontà. Che non ha sesso, razza, religione, colore.
È solo avendo il coraggio di entrare dentro se stessi che si può vederlo per quello che è. E, quindi, scegliere.

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