Cosa hanno di tanto magico le parole? Che va oltre lo scambio di informazioni, oltre il contatto umano diretto. Certo, le parole sono una parte importante della costruzione del mondo, che è, in primo luogo un’immagine mentale, una mappa interiore, e quindi anche un discorso, una collezione di storie. Ciò che rende praticabile qualcosa di fondamentalmente inconoscibile. Ma ancora più di questo, le parole riescono ad essere vettori di verità che formalmente non contengono, sono in grado di accennare a qualcos’altro che cogliamo, intuiamo, ma non sappiamo dire. Ma è importante, ci dà qualcosa che sentiamo prezioso.
Non mi viene in mente un esempio migliore degli haiku. Componimenti brevissimi, tre versi di 5, 7 e ancora 5 “sillabe”. Una forma altamente codificata ma anche un contenuto altamente codificato. Sembrerebbe una trappola, una limitazione claustrofobica. Invece è incanto, ampio orizzonte, respiro. E quel quid prezioso e indicibile non solo è chiaramente presente ma resiste – o si rinnova – anche attraverso la traduzione, il passaggio fra due lingue, due scritture così lontane come il giapponese e l’italiano. Queste semplici piccole parole aprono lo sguardo, lasciano un profumo di altrove. Il varco è qui? Non so se è qui ma sembra un buon posto dove cercare. [Considerate da ogni lato il tempo].
l’allodola
del mio villaggio non la vedo,
ma so che canta
–
fiori di pruno
è un’estasi
la mia primavera
[Kobayashi Issa; da Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento. A cura di Elena dal Pra. Mondadori
con l’invidia negli occhi –
insegui la farfalla
uccellino in gabbia
–
non andare, non andare
prima lucciola! Tutti
falsi richiami
–
quando morirò
fa la guardia alla tomba
piccolo grillo
–
montagne remote
specchiate negli occhi
delle libellule
–
vento autunnale
e l’ombra dei monti
barcolla
[Kobayashi Issa; da Il muschio e la rugiada. Antologia di poesia giapponese. A cura di Mario Riccò e Paolo Lagazzi. BUR]