Pia Pera ci prende per mano e ci accompagna con cura e attenzione nel suo giardino pieno di
colori e di vita, ci presenta le sue piante, godiamo dell’ossigeno dell’aria, ci sentiamo grati alla
natura, la stessa che avvolge Pia e la aiuta a vivere meglio la sua malattia. Sebbene Pia la nomini
soltanto a tre quarti del libro, noi lettori riconosciamo in lei, da subito, la Sla, anzi “la malattia del
motoneurone”, così lei la chiama per arginarne l’invadenza; lei desidera che sia la propria vita a
primeggiare, con le speranze, i progetti, la convinzione dell’autoguarigione e la bellezza del suo
giardino! Godiamo anche noi di questa scelta di vita, calandoci piano piano, insieme a Pia, con
rispetto e delicatezza, nel suo piccolo podere presso Lucca. Ci accorgiamo, con lo scorrere delle
pagine e del tempo, che il suo corpo sta a volte gradualmente, a volte velocemente peggiorando,
ma siamo come lei, pare che non ce ne curiamo, così immersi in uno stile morbido, scorrevole e
dolce. Ci sembra di vederla passeggiare nel giardino, essere con lei mentre gode del profumo dei
fiori, delle sfumature del verde delle foglie, dei sapori dei frutti degli alberi.
Anche a noi pare di non fare troppa fatica ad alzarci da terra, utilizzando trucchi e accorgimenti
che Pia è brava a trovare per garantire non tanto la propria autonomia, quanto il proprio voler
stare da sola con se stessa, all’aperto, in giardino. Da quando, invece, Pia dà il nome corretto,
dalla prognosi indiscutibile, alla patologia da cui è affetta, anche lo stile letterario cambia:
assistiamo ad una parabola discendente, a volte priva di punteggiatura, in cui sentiamo la forza
della speranza nella sua autoguarigione, nella vittoria della mente lucida sul corpo malato lasciare
il posto ad una speranza ironica e sarcastica.
Cosa cambia nel rapporto con il giardino? Cambia tutto, ci dice Pia Pera, “non posso più vangare,
zappare, tagliare l’erba, potare, sfoltire, fare buche, raccogliere frutti o ortaggi, portare a
passeggio il cane Macchia”. Pia vuole uscire e respirare a pieni polmoni, godersi il sole, l’aria, gli
aromi che le stagioni portano con sé, mangiare e leggere all’aria aperta. Un esterno salvifico contrapposto agli spazi interni che corrispondono a vissuti sempre peggiori, come la casa da
rendere agibile per lei con lavori di ristrutturazione, ospedali, studi medici con macchinari che non
suscitano in lei alcuna fiducia, anzi desiderio di scappare per tornare nella quiete del suo podere.
Gli amici, come i libri della biblioteca potrebbero prendere il posto dei fiori e delle piante, ora che
non può più dedicarsi alla loro cura, ma Pia, pur apprezzando l’affetto e la vicinanza dei primi e
l’utilità dei secondi, non vuole limitarsi a relazioni e spazi “stretti”, ha bisogno della luce, dell’aria,
della bellezza insostituibile della natura.
“Non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare,
appassire, perdere pezzi, e soprattutto: non muovermi come vorrei». Lei stessa è diventata il
giardino.
Nel suo libro, scritto in prosa poetica, Pia traduce in parola quello che vive, che prova e che pensa,
dalle riflessioni più astratte e filosofiche alle faccende più quotidiane e riguardanti l’intimità, senza
pudore, dando un senso oppure riconoscendo che non c’è un senso a quello che le sta accadendo.
E’ la parola a permetterle di rivivere la realtà a cui lentamente non può più accedere. Vero è che
non vedrà più i suoi fiori, ma potrà sempre dipingerli, nelle loro più delicate sfumature, con la
parola, sconfiggendo, in un certo senso la malattia e la morte.
Grazie (a) Pia, ci sentiamo tutti meno soli.
Ilaria Bignotti, psicologa
Pera P., Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte delle Grazie-Adriano Salani Editori, Milano, 2016