Maurice Blanchot si è spinto ad affermare che l’uomo non è a conoscenza della morte solo in quanto uomo, ma piuttosto è uomo solo in quanto è morte in divenire.
Tutte le culture umane possono essere decodificate come ingegnosi congegni che rendono la vita vivibile, nonostante la consapevolezza della morte.
La creatività delle culture nel «rendere possibile vivere nell’inevitabilità della morte» è sorprendente, anche se non illimitata. In effetti, la stupefacente varietà di espedienti che si riscontrano si può ridurre a un numero ristretto di categorie: tutte le varianti si possono infatti classificare in base ad alcune strategie essenziali.
Tra queste invenzioni culturali quella di gran lunga più diffusa, più efficace e, perciò, più allettante consiste nel negare che la morte sia qualcosa di definitivo: l’idea – sostanzialmente non verificabile – secondo cui la morte non è la fine del mondo, ma il passaggio da un mondo a un altro (una scadenza, come l’ha definita di recente Sandra M. Gilbert, non una conclusione). Chi muore non uscirà dall’unico mondo esistente, dissolvendosi e scomparendo negli inferi del non-essere, ma passerà semplicemente in un altro mondo in cui continuerà a esistere, in una forma ben diversa da quella per lui consueta, ma non troppo – il che è rassicurante.
Per quanto meno perfezionati dell’originale, tutti i surrogati sono stati progettati in base alla formula della vita-dopo-la-morte, nel tentativo di dare significato alla vita battendo sul tasto della durevolezza degli effetti di una vita terrena dichiaratamente transitoria, per rassicurare sul fatto che il duro lavoro compiuto in questa vita non sarebbe stato buttato via e convincere così gli incerti che il modo in cui la vita viene vissuta ha importanza ben oltre il momento in cui la vita stessa cessa, e che le conseguenze di ciò non potrebbero mai essere annullate.
In base a questa formula ciascun essere mortale può decidere se la propria vita debba fare o no la differenza per il mondo che esisterà dopo la sua morte, e che tipo di differenza. Il mondo che persisterà dopo la fine della sua vita sarà abitato da altri, e quell’unico individuo che ha fatto la differenza non sarà tra questi, ma gli altri viventi sperimenteranno gli effetti di quella vita che si è conclusa e si spera sapranno riconoscerli. A confronto con lo stratagemma originale, le versioni modificate (surrogate) hanno apparentemente moltiplicato le scelte aperte ai mortali. Per chi è spinto dalla possibilità di conquistare quel genere di immortalità offerta dalle versioni alternative, la gamma di scelte è stata ampliata ben al di là del semplice dilemma paradiso-inferno. Una volta che la prospettiva di immortalità, in qualunque forma, cessa di essere una conclusione scontata, si apre a tutti un ampio spazio per l’invenzione e l’esperimento.
Si dà il caso che in ogni tipo di società l’individualità tenda a essere privilegio di pochi, molto ambito e attentamente vigilato e custodito. Essere un individuo significa distinguersi dalla folla, avere un volto riconoscibile e un nome conosciuto, evitare di essere confuso con chiunque altro, preservando così la propria ipseità.
L’individualità è un «valore» solo in quanto non arriva gratuitamente come «dono», solo perché conquistarla richiede una lotta, uno sforzo – e per tutte queste ragioni essa è, in linea di principio, disponibile per alcuni e ostinatamente irraggiungibile per gli altri. Se non esistessero masse senza volto – la «gente», il «gregge», l’«orda» o la «plebaglia» – o se l’individualità fosse una caratteristica innata, non problematica, effettuale, di ogni e qualsiasi persona l’idea dell’individuo sicuramente perderebbe molto del proprio lustro e attrattiva, e con ogni probabilità non sarebbe nemmeno nata.
Ciascuno di noi è legato ad altri intorno a sé dai fili della simpatia e dell’intimità di cui sono intessute le relazioni «tu-io». Si dà il caso, tuttavia, che gli «altri» facenti parte di questo selezionato gruppo muoiano, scompaiano, a uno a uno, dal nostro mondo, portando con sé nella non-esistenza il proprio mondo; nella maggior parte dei casi non li sostituiremo, e in nessun caso li sostituiremo completamente – e questa impossibilità di sostituirli del tutto ci consente di intuire il vero significato dell’«unicità» e della «definitività», di cogliere in anticipo il significato della nostra morte nonostante la nostra incapacità di visualizzare il mondo privo della nostra presenza, il mondo-dopo-la-nostra-morte, il mondo senza noi che lo osserviamo. Man mano che questi altri, uno dopo l’altro, se ne vanno, i nostri mondi, i mondi dei sopravvissuti, perdono, pezzo dopo pezzo, il proprio contenuto. Chi ha vissuto a lungo e ha visto i propri cari andarsene si duole per la marea crescente della solitudine: l’esperienza misteriosa e inusitata del mondo vuoto, altra indiretta introspezione nel significato della morte.
Per tutte queste ragioni, quando finisce la condivisione di un mondo «tu-io» a causa della scomparsa del compagno di vita, questo evento può essere descritto, con un grado minimo di semplificazione, come esperienza di morte «di secondo grado» (e, vorrei ripetere, questa è l’unica modalità in cui l’esperienza della morte è accessibile a chi è vivo). Ma una fine analoga a quella del mondo condiviso «tu-io» può essere causata anche da qualcosa di diverso dalla morte fisica di un compagno. La rottura di una relazione recide un legame interumano e, sebbene dovuta ad altre ragioni, ha anch’essa un’impronta di «definitività», anche se, diversamente dalla morte vera e propria, quell’impronta può essere cancellata (una relazione può essere, almeno teoricamente, ripristinata e risuscitata, anche se la probabilità che ciò accada tende a essere seriamente ridotta dal fatto che la possibilità di riconciliazione è ostinatamente negata, e dichiarata impensabile, a caldo, quando i partner si allontanano); essa potrebbe dunque essere definita un’esperienza di morte «di terzo grado».
La morte stessa è «banalizzata» per procura quando quel surrogato di second’ordine, l’esperienza di morte «di terzo grado», diventa un fatto ripetuto più volte e ripetibile all’infinito. È quanto accade quando i legami umani diventano fragili e provvisori, hanno scarse o inesistenti speranze di stabilità e sono fin dall’inizio spaventosamente facili da sciogliere quando si voglia, senza preavviso o quasi. Via via che i legami umani dell’era liquido-moderna si fanno chiaramente fragili e «fino a nuovo avviso», la vita si trasforma in una quotidiana prova di morte e di «vita dopo la morte», di resurrezione o reincarnazione, eseguite per procura ma – come la reality Tv – non per questo meno «reali». La «alterità assoluta» che distingue l’esperienza di morte da ogni esperienza di vita diviene ora una caratteristica ordinaria della quotidianità; spogliata del suo mistero, familiarizzata e addomesticata, la bestia selvatica si trasforma in un animaletto domestico.