Ogni giorno, ormai, veniamo a conoscenza di piccole vittime della violenza cieca degli adulti: bimbi di pochi mesi, anni, morti per mano di adulti che avrebbero avuto il compito di amarli e proteggerli dai pericoli della vita. Ci indignano questi orrendi fatti di cronaca. Ma non ci stupiscono. In una società che apparentemente condanna, ma di sottobanco rende lecita l’aggressività in tutte le sue possibili sfaccettature, verbale, digitale, fisica, al punto da assistere sempre più frequentemente all’annientamento e all’umiliazione di coloro che, per qualsiasi motivo, espongono le loro fragilità, non ci stupiamo più che la frustrazioni più bieche di esseri umani vuoti possano riversarsi su chi rappresenta l’emblema della fragilità e dell’innocenza: i bambini. Ma i fatti di cronaca rappresentano solo la punta dell’iceberg. In un mondo che sbandieriamo essere civile, ricco, ricolmo di opportunità e di libertà esistono, ancora oggi, bambini che vengono torturati, abusati, venduti, utilizzati come bombe umane; bambini che vengono costretti a lavorare giorno e notte per garantire un pugno di riso alla propria famiglia; bambini che, ogni giorno, non solo perdono il loro diritto a vivere l’infanzia, ma vengono privati della loro appartenenza al genere umano. Le responsabilità di tutto questo non sono da attribuire solo ai loro carnefici, agli uomini senza scrupoli, onore né dignità che si macchiano dei crimini contro l’umanità più efferati; sono da attribuire, anche se indirettamente, a tutti coloro che scelgono, ogni giorno, di voltare la testa dall’altra parte, di far finta di non sapere, che si accontentano del detto “occhio non vede, cuore non duole”: sono coloro che fingono di non sapere da dove provengano i prodotti che consumano, che usano la tastiera di un computer come una mitragliatrice,  che pensano che la miglior difesa sia l’attacco, che sostengono che il fine giustifichi sempre e comunque i mezzi. Sono coloro che, anche quando non esercitano un’aggressività diretta, non esercitano comunque nemmeno l’ascolto e la comprensione profonda dell’altro. Il che, in questa società così densa di fragilità, è già di per sé una forma di aggressività. Leggiamo tutti i giorni come le peggiori aggressioni ai bambini comincino proprio dall’incapacità di mettersi in ascolto dei loro bisogni, dei loro tempi, delle loro necessità del corpo e dell’anima. Chiediamo ai bambini ogni giorno di più prestazioni, parametri, uniformità; e non cogliamo il loro bisogno di vivere un tempo pieno di niente: niente fretta, niente distacchi bruschi, niente sostituti dell’amore, dei baci, delle carezze, degli abbracci. Ma la nostra società evoluta quel niente, che però è tutto nella vita umana di relazione e cura, non lo riconosce più. Per questo ci indigniamo, ma non ci stupiamo veramente. Perché ciò su cui siamo veramente sintonizzati è la consapevolezza che questa sia la società in cui c’è sempre qualcosa di più importante da fare: per noi stessi, per il lavoro, il dovere o per il piacere. Anche quando quel qualcosa ci fa perdere la dimensione del valore della relazione umana. Anche quando quel qualcosa diventa più importante della vita dei nostri figli. I figli diventano l’oggetto attraverso il quale si rivendica tutto: una vita che non ha preso la piega che si sarebbe desiderata, un amore perduto, l’incapacità di far valere la propria dignità di uomini e donne, se non attraverso la violenza. Riecheggiano nella mia mente le parole di una mamma la quale, in un’intervista, ha raccontato il suo dramma, la sua storia e quella del suo ex marito, che ha accoltellato tutti e tre i loro figli, arrivando ad ucciderne, per una pura casualità, uno solo. Ho letto la disperazione nel racconto di un omicidio che è avvenuto dopo che tutto era stato pianificato nei minimi particolari: un padre che conosce i punti di forza e di debolezza dei suoi figli e li utilizza per raggiungere il più bieco degli scopi. Quello di fare del male alla propria ex moglie, togliendo la vita alle creature che ha messo al mondo assieme a lei. Oggi, uno di quei figli non c’è più e una madre vive col perenne rimorso di aver concesso che i bambini trascorressero con lui quella maledetta domenica, di non aver capito che acconsentire a quella richiesta avrebbe stravolto per sempre le loro vite. La morte, quando riguarda i bambini, e quando avviene in maniera violenta ci mette di fronte alla necessità di riconsiderare tutta la nostra vita. Di ridefinire una priorità, di individuare non solo il confine tra giusto e sbagliato, ma anche di interrogarci su cosa sia davvero la tutela, su come possiamo davvero fare in modo che nessun bambino al mondo sia più vittima di violenza. Sono tante le domande, tanti gli interrogativi che ci lasciano tristi ed impotenti di fronte al male assoluto del mondo.

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