Asfissia neonatale. Questo c’era scritto sulla cartella clinica di Alessandro, quando lo dimisero dopo la nascita. Che cosa significasse “asfissia neonatale”, mia zia lo imparò solo dopo, quando Alessandro cominciò a non parlare, a camminare in maniera goffa e impacciata. Lo imparò quando dovette combattere per oltre trent’anni con le rigidità cognitive, con i comportamenti autolesivi, con l’iperfagia. Alessandro è mio cugino e oggi ha più di cinquant’anni. Della necessità di una legge sul “dopo di noi” se ne parlava quando Alessandro era molto giovane ed io poco più che una bambina. I genitori dei bambini disabili temono la loro morte non per sé stessI, ma per ciò che la loro assenza significherà per i figli che sopravviveranno a loro. Le riabilitazioni costose, la necessità spesso di farsi aiutare da qualcuno, il mantenimento di una vita decorosa quotidiana, la garanzia di avere un tetto sopra la testa: chi può accollarsi tutto questo? I genitori sanno bene che, spesso, i servizi garantiti alle famiglie sono parchi e risicati già quando loro sono ancora in vita, figuriamoci dopo la loro morte. A dire il vero, nel 2016, una legge sul “dopo di noi” è stata fatta. Ma siamo ancora lontani dalla sua concreta applicazione. Sono ancora tanti i genitori che affrontano una vita di privazioni per poter garantire una minima eredità perché non manchi ai propri figli il quotidiano; ma molte famiglie, in coerenza con il nostro tempo devastato dalla crisi economica e sociale, non se lo possono permettere. È un diritto delle persone disabili quello di continuare ad avere accesso ad un vita dignitosa sul piano economico, sociale, riabilitativo anche dopo la morte dei propri congiunti? Ovviamente. Ma mi preme sottolineare che è anche un diritto umano quello di vivere senza la costante vessazione del pensiero del futuro. Anche i genitori dei bambini, giovani e adulti disabili hanno il diritto di vivere senza una perenne spada di Damocle sospesa sulle loro teste: il presente li espone già ad un grande investimento emotivo e fisico, rispetto al quale più di una famiglia si sente molto provata; non vi è alcun bisogno di aggiungere a queste fatiche quotidiane anche il pensiero di cosa accadrà quando non ci sarà più nessun familiare ad occuparsi del proprio figlio. Qual è lo scoglio che separa l’emanazione della legge sul “dopo di noi” dalla sua applicazione? L’individualismo del quale è profondamente impregnata la nostra società. Ed anche il separatismo, aggiungerei. Perché siamo ancora così ingenui da pensare che la disabilità sia qualcosa che tocca ad alcuni, che sia fondamentalmente una questione di sfortuna, che se la scampiamo alla nascita allora siamo salvi. Nonostante la realtà intorno a noi ci racconti storie di variegata e ormai normale sofferenza, non abbiamo ancora compreso che la disabilità è una condizione che può sopraggiungere in qualunque fase della vita. In assoluto potrebbe riguardare i nostri figli sani, che divengano disabili dopo la nostra morte. Una legge sul “dopo di noi” fattiva è una legge che si fondi su un radicale cambiamento di prospettiva, una prospettiva che contempli una società determinata a prendersi cura di se stessa e di tutti i suoi componenti, indipendentemente dal fatto che siano congiunti. Siamo ancora convinti che la società sia fatta per le persone sane. Ma di sano in questo mondo c’è rimasto ben poco. Ci ammaliamo per cose un tempo inimmaginabili: stress, tristezza, inquinamento, benessere. Sì perché abbiamo persino coniato il termine malattie del benessere. Il concetto di cura è qualcosa che deve appartenere a noi come individui prima che allo Stato il quale, ad ogni buon conto, è giusto che faccia la sua parte. Alessandro vive in una struttura per persone con disabilità come lui. Torna ancora a casa ogni fine settimana, nonostante la mia zia ultranovantenne cominci ad accusare una profonda stanchezza. Ma ha deciso di infondere il suo calore umano di madre, in base alle sue possibilità, fino all’ultimo dei suoi giorni e questo le fa un grande onore. Dobbiamo essere consapevoli che questo non è possibile per molte famiglie che necessitano, come è successo a mia zia, di un “durante noi”. A volte, nonostante tutto l’amore del mondo, non si riesce a farsi carico dei propri cari nemmeno quando si è ancora in vita. A questo aggiungo un’altra riflessione. Chi si occupa di affrontare, insieme alle persone con disabilità, il tema della morte? Come questi bambini, adolescenti, giovani e non più giovani uomini e donne vengono preparati alla separazione da chi si è occupato di loro per tutta la vita? Ricordo Francesca, che un giorno è arrivata al centro socio-riabilitativo che frequenta, mentre la sua anziana madre moriva dopo una lunga malattia nell’ospedale accanto. Francesca crede che sia partita per un lungo viaggio. Nessuno ha avuto il coraggio di dirle che da quel viaggio non tornerà più. E’ sola senza sapere di esserlo. Forse il dopo di noi dovrebbe contemplare anche questo. Il diritto a sapere di essere rimasti orfani e di sapere anche di non essere soli del tutto. Il diritto di sentire su di sé per tutta la vita uno sguardo dal cielo. Perché, ovunque crediamo siano ora quei genitori, di sicuro non potranno smettere di vegliare sui loro figli. Tutelare la dignità e la salute di coloro che ci sono ancora, anticipando strategie e soluzioni per quando non ci saranno più, è un dovere delle nostre istituzioni e di tutti noi cittadini. Fare una legge non basta. Ad ognuno di noi è chiesto di fare, nel quotidiano, molto di più.

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