L’emergenza sanitaria non è finita, eppure l’apparenza intorno a noi ci parla di una, seppur lenta, ripresa. Ciò che si para davanti ai nostri occhi è un Paese che cerca di ricostruire una normalità in un mondo che non è comunque più tale e quale lo ricordiamo. Eppure il mondo non è solo ciò che i nostri occhi riescono a vedere. La verità è molto più profonda di ciò che possiamo  cogliere. Esiste un mondo sommerso, lontano da tutto ciò che siamo convinti di sapere. Esistono storie capaci di toccare l’animo umano in maniera profonda e di accompagnarci per mano lungo un sentiero di verità che non possiamo più rifiutarci di conoscere. Il Covid-19 sta lasciando dietro di sé molte più macerie umane di quelle che siamo capaci di contare. Non parlo solo di coloro che hanno contratto il virus. Vi sono anche persone che il virus non lo hanno incontrato direttamente, ma hanno subito sulla loro pelle tutte le conseguenze delle restrizioni e delle disposizioni che il contenimento dell’emergenza sanitaria ha imposto. Se mi guardo intorno e appoggio gli occhi su ciò che resta della piccola città in cui vivo, in Emilia Romagna, tutto parla della voglia di non arrendersi ma, contemporaneamente, dell’impossibilità di lottare contro qualcosa che è più grande di noi. Ogni giorno si moltiplicano le serrande chiuse, i negozi che hanno tentato la riapertura senza riuscirvi, le piccole e grandi attività che, dopo aver cercato faticosamente di raccogliere le forze, hanno dovuto soccombere davanti ad una crisi evidente. Ebbene, dietro quelle serrande, quelle porte, quei cartelli, ci sono persone. Ci sono famiglie, che prima contavano su una disponibilità economica che ora non c’è più. Qualcuno cerca aiuto, qualcuno si arrende prima. Qualcuno non ce la fa, non ha più nemmeno la forza di lanciare l’ultimo grido di dolore. E se ne va silenziosamente, come se non volesse arrecare ulteriore trambusto, nella marea di confusione già creata da una ripartenza necessaria da realizzare, ma, nei fatti, molto più complessa da organizzare di quel che si possa credere. E’ incrementato il tasso di suicidi, durante e dopo il lockdown ed il prosieguo della pandemia. Sono uomini e donne di 45-50 anni, la fascia di età più a rischio, che perdono il lavoro e non sanno più dove ricollocarsi. Perdono le speranze, per sé e per i loro cari. E così si uccidono, o tentano di farlo. Il fenomeno dei suicidi interessa l’intero Paese, da nord a sud, ed anche fasce di età più basse rispetto a quella indicata. E’ incrementata la solitudine nella quale persone già stremate dalla vita devono continuare a sostare, senza intravedere nuove prospettive, né un segnale che faccia percepire loro che sta per finire, che qualcosa potrà  cambiare. Che non sono soli. L’elevato tasso di suicidi è un fatto. Rappresenta un segnale concreto, un solco lasciato da una sofferenza che non può essere ignorata. Qualcuno ce la fa. Qualcuno, prima di premere il grilletto, decide di comunicare la propria disperazione. Chiede aiuto, tende una mano in un mondo in cui non ci si può più toccare. E, a volte, trova, quando non una mano concreta, una carezza sul cuore. Un alito di speranza che lo trattiene a quella vita che stava per rifiutare. E si salva. Perché trova ascolto, solidarietà, aiuto. Ma qualcuno non ce la fa. Non ce la  fa a chiedere aiuto. Non ce la fa per paura, per vergogna, perché pensa di essere destinato alla solitudine così come nella vita anche nella morte. Non ce la fa. E il silenzio della morte e della solitudine di chi non trova via d’uscita arricchisce la nostra coscienza di una sconfitta umana che poteva e doveva essere evitata.

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