Per te non ci sarà il sole, per te non ci sarà la morte,

per te non ci sarà dolore, per te non ci sarà calore,

né sete, né fame, né pioggia, né aria, né malattia, né famiglia.

Non avrai paura di nulla, tutto è per te concluso,

tranne una cosa: PORTARE AVANTI LA TUA MISSIONE.

Rimarrai nel luogo che ti è stato assegnato,

per difendere la tua nazione,

la tua gente, la tua razza, i tuoi costumi, la tua religione.

Giura di mantenere il divino mandato.

Giuramento Yaqui

Introduzione: Gli Yaquim

Il giuramento Yaqui ci parla del senso della vita e quindi di quello che è considerato il suo complemento: la morte. Deve imparare a perdersi, a rischiare la morte e persino a morire, per ritrovarsi più forte e più umile.

La danza rituale del Venado (Cervo) è una rappresentazione che rielabora nella comunità il senso profondo di questo messaggio, perché il giovane elabora chiavi di lettura dell’esperienza del dolore e della morte, attraverso la condivisione del timore e della sofferenza del cervo che muore, qui, recupera il senso gioioso di una scoperta che fa leva sul desiderio di capire.

Gli Yaquim sono noti per essere un popolo agguerrito che ha difeso la propria terra con onore e coraggio. Questo passato, che è anche un presente, trapela dalle parole del giuramento. Prima dell’arrivo degli spagnoli questo popolo di guerrieri ha fronteggiato le incursioni degli Apache e, nel 1607, data delle prime battaglie, sconfissero i bianchi.

Si narra che il capo tribù abbia tracciato un segno sul terreno sabbioso, ingiungendo loro di non oltrepassarlo se non volevano essere uccisi all’istante. Dopo alcuni anni, gli Yaqui iniziarono ad intrattenere relazioni amichevoli con i missionari gesuiti. Da quel momento, questo popolo seminomade iniziò a farsi stanziale, a migliorare i sistemi di coltivazione e ad organizzarsi negli otto villaggi che conosciamo: Tórim, Pótam, Rahúm, Huirivis, Belem, Loma de Bácum, e Loma de Guamúchil, meglio noto come Cócorit. Ciascun villaggio rappresenta una unità politica, militare e religiosa.

Dopo molti tentativi da parte dei bianchi di impossessarsi del vasto territorio della valle del Yaqui, nel 1741, si giunse ad un trattato che riconobbe loro il diritto di conservare la propria terra ed i propri costumi. I colleghi, mi raccontano queste notizie con passione. Nel 1767, i gesuiti furono espulsi e sostituiti dai francescani. Da questo momento, iniziò la lenta e progressiva spoliazione delle terre yaqui da parte dei nuovi coloni, sino a che, nel 1825, iniziò una lunga serie di ribellioni e proteste che, in sostanza, sotto varie forme, giunge sino ai giorni nostri.

Chiavi di lettura

Queste brevi riflessioni postulano l’ipotesi che gli spazi rituali e mitologici del sapere ancestrale costituiscano un ambito educativo per eccellenza, in quanto qui si verificano cambiamenti che sanciscono il ruolo del soggetto nella comunità come i suoi apprendimenti più importanti, quelli che hanno un senso esistenziale. Infatti, nella cultura Yaqui, le persone sono identificate attraverso i significati che la comunità attribuisce loro. Tali significati rappresentano il valore dell’individuo, la sua sapienza che si manifesta nel suo agire e che si acquisisce nel sogno, durante le danze cerimoniali, i riti, gli incarichi sociali, in breve: durante un lungo ed elaborato percorso formativo. Siamo interessati a capire, quindi, come questa comunità organizza il pensiero in relazione sia al proprio universo simbolico sia all’ambiente che la circonda. Alla luce di quanto abbiamo sinteticamente esposto sino ad ora, si deduce che utilizziamo un concetto di cultura intesa tanto come realtà storica, insieme di concezioni e comportamenti, quanto come formazione umana. In tal senso, si tratta di una categoria concettuale plurima che può essere utilizzata come strumento di analisi della differenza, rispetto ai processi di conoscenza che caratterizzano le nostre tradizionali consuetudini formative. 

Lavorare sulle culture ancestrali, riscontrabili nelle popolazioni originarie del Messico e, più in generale, dell’America Latina, significa ritrovarsi di frequente di fronte all’onirico, a quella dimensione del sogno che traccia percorsi di conoscenza, per loro non per noi, secondo una prospettiva di consapevolezza cui abbiamo accennato nel titolo e che rimane, in ogni caso, un mare oscuro. Questo ci induce ad un inevitabile confronto con le procedure cognitive dei saperi occidentali per definizione, dato che anche questo è Occidente, si potrebbe dire Occidente estremo. Di qui la necessità di mettere in campo una prassi di ermeneutica applicata, con lo scopo di esaminare una epistemologia della formazione e della trasmissione della conoscenza, che spesso passa attraverso itinerari iniziatici ed esoterici dove la lingua del sogno e la sua dinamica hanno un peso preponderante. Ci ha implicato una interpretazione di dati e documenti raccolti con osservazioni sistematiche, alla luce del loro senso simbolico, collocabile se possibile in prospettiva sistemica, al fine di una più ampia comprensione dei modelli educativi.

In queste poche righe cercheremo di esplorare i processi attraverso i quali la comunità elabora, preserva e trasmette la conoscenza ancestrale che è alla base della loro concezione della morte. A questo fine, abbiamo riflettuto sulla loro cosmovisione, cercando di mettere a fuoco il loro concetto di spazio (incantato) e di tempo (onirico). Per questa comunità, la vita è solo una fase dell’esperienza cosmica in cui entità dotate di energia spirituale e di volontà prendono la forma di vegetali, animali o umani e sono caratterizzate dalla finitezza. Invece, il regno antico o realtà suprema – yo’o ania -, dove hanno origine le entità primarie che sono eterne e, per molti, invisibili, è infinito. Tali entità, tuttavia, animano i corpi le cui forme vegetali, animali o umane, appartengono al mondo concreto che tutti vediamo, il itom ania. Qui, nella dimensione concreta, passato e presente si fondono perché il regno antico, che è infinito e atemporale, partecipa del reale cosiddetto oggettivo che, come già affermato, è segnato dalla finitezza. Anche lo spazio che delimita la geografia del territorio yaqui è comprensibile solo nella fusione concettuale di questi due mondi, perché è costellato di luoghi sacri, denominati focolai incantati che, come vedremo più avanti, sono le porte della conoscenza ancestrale. Il teéka, il cielo, è il luogo dove, lo spirito – jiapsi – torna dopo la morte fisica[1]. È questa la morte: l’abbandono da parte dello spirito di un corpo che animò lungo il corso della vita terrena. Durante i funerali si celebrano specifiche ritualità, danze e cerimonie in base al ruolo che il defunto ha svolto nella comunità. Nella fase temporale del lutto si osservano alcune regole di purificazione e ci si astiene dal consumare alcuni alimenti. Successivamente si svolgono cerimoniali in ricordo del defunto e si offrono, in sua memoria, cibi, bevande, canti e balli. Il sincretismo religioso si fa molto evidente durante la Quaresima e la Settimana Santa, quando alle funzioni religiose di origine cattolica si alternano i riti e le danze cerimoniali originari.

Presso i clan di questa tribù, se un uomo è riconosciuto colpevole di un crimine grave (omicidio, stupro, tradimento della patria) da parte dell’unanime consiglio giudicante, la condanna a morte viene eseguita per fucilazione il giorno successivo alla condanna tra le otto e le dodici, da parte di otto uomini, ognuno dei quali appartiene ad un clan diverso. La sera prima dell’esecuzione, il condannato viene vegliato da parte della famiglia, come se fosse già morto, in una cerimonia detta teokari, che si svolge presso la “casa benedetta” (di solito la chiesa del luogo). Molto duro il trattamento nei confronti di chi si ubriaca: la sbronza, detta anche cruda, viene fatta risalire secondo una terminologia popolare al sostantivo cruz. Il destino dell’ubriacone molesto risulta essere in effetti una via crucis a suon di frustate, con una crocifissione simbolica nel centro del paese, dove il malcapitato viene esposto alla riprovazione pubblica dei suoi concittadini. Abbiamo voluto portare due esempi di amministrazione della giustizia per metterne in luce l’estremo rigore. La convinzione è che solo la rigida osservanza delle tradizioni possa mantenere integra la comunità e impedirne lo sfaldamento e la dispersione, come è avvenuto con dolore per altre etnie indigene

Così come abbiamo iniziato questo articoletto con un canto ancestrale, vorremmo concluderlo con un canto contemporaneo:

Che triste sarebbe il mondo se Dio non creasse l’essere umano

Che triste sarebbe la vita se non esistesse l’amore

E la tristezza

Io sono come il sole che dà la luce a tutti i giorni.

Do tenerezza e amore ad ogni momento della vita. 

Tu sei come la luna che adorna le notti

che adorna il giorno e la notte, la mia casa e il mio essere

Incessantemente senza smettere

Che solo dio e solo la morte 

Ci separa da questo mondo alla fine del tempo Ma che Dio ci riservi molti anni di vita ancora per continuare a godere di essa in questo mondo incantatore e senza fine.   

A continuazione vorremmo esporre alcune fotografie assai significative dei luoghi sacri deputati al riposo dei defunti. Le fotografie sono state scattate dalla sottoscritta durante lo svolgimento della ricerca e sono state pubblicate nel libro scritto con Carlo Rosa, Il mondo degli incanti, Milano, Unicopli.


[1] Cfr. E. Lerma Rodriguez, Cuando los Chichi’ales llegan: la conceptualizacion de muerte entre los Yaquis, in “Nueva Antropologia. Revista de Ciencias Sociales, n. 79, Religiosidad popular, rituales y representacion social de la muerte, Julio-diciembre, 2013, pp. 29-47.

Anita Gramigna