Di quel giorno ricordo tutto: il caldo afoso, le tende spesse di quella stanza di ospedale, i dolori delle contrazioni che si succedevano sempre più ravvicinate. Immaginavo come sarebbe stato vederti, sentirti piangere. Come potevo immaginare che il tuo primo pianto non l’avrei mai sentito?
Sono rimasta tanto tempo in quella stanza da sola, a chiedere un aiuto che sarebbe arrivato troppo tardi. I minuti passavano e così le ore. Quelle contrazioni dapprima intense e regolari, ad un certo punto sembravano rallentare, lasciare il mio corpo. Anche tu mi stavi lasciando, lo sentivo. Quante volte l’ho urlato in quella stanza, mentre tuo padre mi diceva di stare calma, mentre mi teneva la mano. Quella stessa mano che è caduta nel vuoto quando anche lui ha capito che tu non c’eri più.
Quante volte ho chiamato il tuo nome Angela. Quanto ti ho cullata mentre ti tenevo stretta al petto, immaginando, sperando, che tu riaprissi gli occhi e cominciassi a piangere?
Sono tornata a casa e tutto quello che ho potuto stringere è stata una culla vuota. Ad aspettarmi solo dei vestitini inamidati che non avrei mai potuto farti indossare, un passeggino che non avrei mai aperto, un biberon che non sarebbe mai stato riscaldato. E tu non c’eri.
Non c’era più una figlia ed improvvisamente non c’era più neanche una madre. Non c’era più nemmeno la mia famiglia, quella che avevo desiderato e immaginato. Ero sola.
Sono sola. I mesi passano, ma non c’è nulla che possa alleggerire il senso di vuoto. Continuo a pensare a quello che avrei potuto fare per salvarti. Per impedire che scivolassi via, che tutto quello che restasse di te fosse una piccola bara bianca ed una lapide sulla quale lasciare un misero fiore.
Mi dicono che non è colpa mia. Che il tempo passerà e starò meglio. Che potrò avere altri figli. Ma nulla di questo riesce a consolarmi. Nessuna pancia potrà sostituire quella che ho accarezzato, nessun pianto colmerà il silenzio assordante di quel giorno, nessuna manina da stingere potrà cancellare il dolore della tua pelle fredda e rigida, mentre ti adagiavo sul tuo letto di morte.
E a tutti coloro che vorrebbero distrarmi e fare in modo che io mi dimenticassi di te vorrei invece dire che io sono la mamma di Angela. E che tu non ci sei più. Ma rimani. Sei nell’aria, nel vento, nei cassetti della mia biancheria; nei pensieri, nelle pagine che riempio, senza sapere che cosa ne farò; sei nel cielo, nelle stelle; sei nel mio letto vuoto e ormai troppo grande; sei nel giardino che coltivo come se tu dovessi tornare da un momento all’altro; sei nelle pagine di un libro che non riesco mai a finire; sei nell’odore delle ciambelle al cioccolato che avrei voluto preparare per te; sei nella mia anima, quella più profonda, quella in cui si nascondono i pensieri che solo una madre può conoscere.
Sei ovunque e, allo stesso tempo, da nessuna parte. È questo il dolore più profondo, quel tonfo vuoto nel cuore dal quale non mi riesco a liberare.
Monica Betti