Introduzione: I Garifuna

I Garífuna, discendenti di ex schiavi fuggiti dalle piantagioni o naufragati sulle coste caraibiche, sono gli eredi culturali di antiche tradizioni africane, ma, al contempo conservano alcuni retaggi delle civiltà indigene di origine maya con cui si sono mescolati. In tale contesto di sincretismo culturale, la sapienza ancestrale ha assunto una funzione identitaria ed educativa di grande interesse pedagogico oltre che antropologico. Questa ricca eredità, a causa della globalizzazione introdotta da nuove forme di sfruttamento economico del territorio e dal turismo, sta subendo evoluzioni ed erosioni che rischiano di minacciare l’identità stessa della comunità.

I Garífuna sono disseminati, oltre che in Guatemala, in Honduras, Belize e Nicaragua. Discendenti, oltre che degli indigeni Maya Q’eqchi, di schiavi africani fuggiti o reduci da naufragi di navi che venivano dalle coste dell’Africa con il loro triste carico di merce umana.

I Garífuna[1] arrivano sulla costa di Livingston nel 1797 quando già il luogo era popolato da africani schiavi, discendenti dei conquistatori spagnoli e dei popoli originari Maya (Arrivillaga Cortés, 2013). La loro origine si fa risalire all’inizio del secolo XVII, nell’isola di San Vicente, conosciuta anche come Yrumein en caribe, dell’arcipelago delle Antille minori. Erano, come si è detto, sopravvissuti da naufragi di navi europee schiaviste. Come è naturale l’isola era abitata da popoli originari, i caribes rossi che, a loro volta, provenivano dalla Guayana e che si mescolarono con un’altra comunità, questa sì autoctona: gli Arawakos. Dal meticciato di queste diverse etnie derivano i Caribes neri: i Garífuna. A poco a poco l’isola di San Vicente divenne un rifugio per gli schiavi fuggiti da zone limitrofe e, dopo aver resistito agli assalti di spagnoli, francesi e inglesi. Fu in seguito a questo avvenimento che i Garífuna furono deportati e disseminati in Honduras, Guatemala e Belize (Gargallo, 2017). Secondo le testimonianze storiche raccolte dall’Associazione di donne Garífuna: “nel 1802 giunse al luogo – situato sulla riva orientale del Rio Dulce – un brigantino che veniva dalla isola di Roatàn, in Honduras. Al comando c’era Marcos Sanchéz Diaz con un equipaggio di razza nera. Per mancanza di viveri e di munizioni, per qualche tempo, furono obbligati a trasferirsi a Punta Gorda, in Belize. Il 15 maggio 1806 giunsero dalle zone limitrofe i Garífuna che chiamarono questo luogo che si affaccia sul delta del Rio Dulce, Gulfu Yumuoun, che in Garífuna, significa Bocca del Golfo” (Asociacion de Mujeres Garífunas UNFPA-AECID, 2010).

Se muore la morte

“Lo spirito dei padri si sta spegnendo”, ci raccontava Manuel, un vecchio pescatore, mentre si lamentava di come i giovani disdegnino la Uraga, la tradizione orale tramandata dagli avi e raccontata dai padri o dai nonni durante le riunioni familiari. Con tristezza, Manuel ci parla di come non riconoscano più le piante curative e come hanno dimenticato le preghiere che si tributano al mare prima di chiedergli in dono i pesci. Il mare è un universo di acque, ci spiega il vecchio pescatore, ha un enorme significato cosmogonico in quanto rappresenterebbe il seme e il contenitore dal quale sorge la vita in tutte le sue manifestazioni. Per questo si dispiace che i giovani pescatori non rivolgano al mare le antiche orazioni. Perché in tal modo, poco a poco, si va spegnendo lo spirito dei padri. Ma, ci spiega, persistono fra le famiglie più tradizionali i chugu, cerimonie dedicate agli ancestri proprio al fine di mantenerne vivo lo spirito, ovvero di non perdere il contatto fra loro e i discendenti. Il legame che si perpetua durante i riti ha questo scopo, ma è anche il momento per trasmettere ai giovani testimonianze sulla loro cultura e su quanto li caratterizza e li differenzia in quanto popolo. Questo processo di condivisione e di trasmissione della conoscenza ancestrale si avvale del yurumein, una sorta di esempio attraverso il quale si mette in scena un insegnamento in genere relativo alla storia di questa terra, ma spesso si evocano i ricordi antichissimi della partenza forzata dall’Africa.  Di più: rafforza i legami familiari o fra famiglie differenti. Gli spiriti possono offendersi se dimenticati troppo a lungo ed è per questo che nella Dabuyaba, la casa degli ancestri, si celebrano i riti di Chugu e di Dugu, durante i quali si offrono ai propri avi ricchi cibi e balli. La zuppa di pesce è normalmente accompagnata da pane dolce, pesce essiccato e cocco. La bevanda che più di frequente si consuma in queste occasioni è il ginger, liquore rinfrescante tratto dalla canna da zucchero. Tali cerimonie sono più frequenti all’indomani della morte di un familiare. Il Chugu dura ininterrottamente tre giorni, mentre per il Dugu non ci sono prescrizioni certe ma di solito la celebrazione è più breve. Altro rito di grande importanza è l’amalihani, termine che significa contemplazione e che si riferisce ad una tipica espressione musicale del luogo. La Dabuyaba è poco lontano dal centro abitato, nel bosco. Si tratta di una costruzione in legno, piuttosto grande, che ospita un altare sul quale si posano le offerte di cibo, liquore, candele, frutta e fiori. I celebranti sono i famigliari del parente scomparso o dell’antico avo nel quale si riconosce un gruppo di famiglie, ma non mancano esperti suonatori di tamburo[2] e di sonagli, i migliori del villaggio e danzanti che offrono alla famiglia e ai suoi spiriti il loro dono in canti e balli. Il ballo, in genere, è circolare, come lo scorrere del tempo, poi ci sono canti scanditi dai battiti delle mani. Le canzoni evocano eventi storici o mitici che raccontano come è nata la vita e perché esiste la morte. Ma, in questo ambito, ci sono anche invocazioni rituali agli eroi che fondarono la comunità, come Satuye (Arrivillaga Corteés, 2016). Un ruolo importante nell’allestimento di riti e cerimonie è rivestito dalle confraternite che vedono protagoniste soprattutto le donne e che si incaricano di provvedere al sostentamento di quelle famiglie che non hanno i mezzi per allestire un degno rituale per i propri avi (Mohr de Collado, 2007). Le confraternite sono organizzazioni religiose che hanno per oggetto la venerazione di un santo Patrono e, di conseguenza, organizzano rituali specifici a lui dedicati.

A sovrintendere le cerimonie, ci racconta Manuel, non può mancare il buyei, la guida spirituale. La guida spirituale spesso assume il ruolo di curandero perché si ritiene che le infermità derivino da carenze o squilibri di energie spirituali o da malefici. Molte malattie si curano con le piante ma, la cosa più importante è saperne individuare la natura interpretando i sogni. I sogni sono fonte di sapienza e luogo di profezia, infine, spazio di comunicazione con gli spiriti dei padri (Suazo 2000, p 17; RIvas 1993, p. 267). Si tratta di antichi retaggi di origine africana che sopravvivono a tanta distanza di tempo e di luogo a cementare il senso di appartenenza e di identità di un popolo reduce da mille diaspore.

Manuel ci ha raccontato come tutte le malattie abbiano un’origine spirituale, i sintomi sono rappresentati dalla comparsa in sogno dei parenti morti. Queste malattie si denominano guibidis e si manifestano anche con la perdita dell’appetito, dolori alla testa, febbre e visioni. È possibile guarire solo attraverso cerimonie durante le quali si invoca il parente morto dell’infermo, mentre la guida spirituale prepara il bagno rituale e le piante che lo aiuteranno a guarire. Se non vengono rispettati i tempi e i modi delle procedure, lo spirito dell’avo scomparso si porta nell’aldilà l’ammalato. Gli chiediamo se le conosce: “certo, per esempio l’infusione di basilico serve a calmare la nausea. La stessa infusione con l’aggiunta di un dente di aglio, accelera il parto, mentre al contrario, la camomilla unita a un thè di chiodi di garofano, lo rallenta. L’infusione di semi di avocado ha un effetto anticoncezionale”. Continua elencando essenze tropicali che noi non conosciamo. Poi ci racconta che è indispensabile sapere come e quando raccogliere le piante officinali, per esempio, non si può farlo quando c’è la luna piena, poi, per tenere lontane le malattie ci consiglia di non fare il bagno di martedì e di venerdì.

Conclusione

Durante le cerimonie si tramandano le tradizioni, si racconta la storia dell’origine, si diffondono le antiche conoscenze sulla medicina ancestrale. La musica è il linguaggio che dà voce all’anima di questo popolo; scandisce le stagioni ed i più importanti eventi sociali. Le danze ci sono parse trascinanti. Abbiamo assistito, sulla spiaggia, alle lezioni di danza e musica dedicate a bambini e bambine di ogni età che si esercitavano per poter partecipare degnamente al festival che si sarebbe celebrato nei giorni successivi. Abbiamo visto donne e uomini ballare la punta, con movimenti frenetici e sensuali a stretto contatto con il bacino del compagno. Abbiamo visto uomini vestiti da donna danzare il yankunu, una danza che ricorda come le donne del villaggio obbligarono i loro uomini a vestirsi con i propri abiti come protesta per non aver saputo difendere il villaggio dalle incursioni degli schiavisti inglesi. La musica reca l’eco del sincretismo religioso che qui trova una sintesi a forte emozionalità estetica e che parla anche agli spiriti dei più distratti. Il linguaggio religioso che attraversa i balli garífuna conserva insieme alla simbologia cattolica elementi della spiritualità afrocaraibica. I canti, vere biblioteche sonore, parlano della morte che libera lo spirito dal corpo e che chiede di essere festeggiata con cibi gustosi e musica. Parlano dei sogni attraverso i quali si manifestano gli spiriti degli avi. È il rapporto con gli ancestri che garantisce la salute: per questo è drammatica, per gli anziani del villaggio, la perdita dell’identità culturale dei Garífuna.

Anita Gramigna

Bibliografia

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[1] Chiamati anche, meno frequentemente, Garinagu o Caribe Negra.

[2] Si tratta di strumenti lavorati a mano ricavato da un tronco d’albero scavato e da una pelle appositamente conciata.

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