L’inarrestabile progresso delle biotecnologie al giorno d’oggi è venuto a rendere la morte un evento sempre meno naturale, quasi a voler cercare di trovare una formula di lunga vita, nonostante la stessa resti sempre e comunque un evento ineluttabile.
Quanto più si progredisce in ambito medico e tecnologico, tanto più si avverte un senso di smarrimento e timore nei confronti della morte: ma, mentre un tempo la maggior paura era di quello che accade dopo la stessa, i.e., il giudizio dell’Onnipotente, oggi tale paura si è trasformata nel provare i tormenti dell’agonia…
L’uomo è l’unico essere vivente che ha la consapevolezza di dover morire ed è forse per questa percezione che la morte fa paura, in particolare nell’epoca attuale, ove il soggetto morente è quasi sempre ospedalizzato e ciò non è privo di conseguenze rilevanti sulla sensazione della sua malattia. Il vedersi sottratto alle figure familiari, il trovarsi in un ambiente asettico -forse collegato a qualche macchina – tutto ciò aumenta il senso di oppressione indotto dalla malattia e provoca una abitudine alla irrimediabilità della situazione.
Ma anche per i pazienti non ospedalizzati la situazione non è migliore, quando, soprattutto si tratta di assumere decisioni in cui viene difficile comprendere quale sia il limite della medicina oltre il quale è giusto ed opportuno non spingersi. Decisioni che personalmente ho dovuto rispettare nei riguardi di una persona cara, la quale ha rifiutato in modo categorico e risoluto un intervento che avrebbe potuto allungarle di sicuro la via, anche se comportava una grave menomazione: sebbene io sia a favore del rispetto della volontà del malato, assicuro che professarsi a favore è un conto, agire è tutt’altra cosa. Ci si chiede davvero se “accontentando” quella persona a imporsi nelle sue scelte, si faccia davvero il suo bene: il mondo intorno diviene un tumultuoso vortice un rincorrere medici (che spesso si negano), operatori sanitari che si rimpallano, amministrativi che non “ricordano”, medici di base che chiudono in anticipo l’ambulatorio, pur sapendo che avevi un appuntamento fuori orario….
Lo scenario viene a configurarsi affollato di figure che “spingono” affinchè tu, parente, agisca per fare l’impossibile (per evitare forse qualche responsabilità?) convincere il malato ad ogni costo, fargli nominare un amministratore di sostegno affinchè lo stesso agisca per effettuare l’intervento medico, anche se il paziente è perfettamente in grado di intendere e volere….
Tutto questo ha un caro prezzo, nel senso che comporta solitudine, incertezza, dolore, amarezza, senso di inadeguatezza (saprò prendere la decisione giusta?) da parte del familiare che deve assumere tali decisioni, sostenendo nel contempo la stabilità emotiva del malato unitamente ad una vaga parvenza di serenità.
Da questa esperienza si può dedurre che si ha più paura del dolore che della morte in sé: ciò che angoscia è soprattutto come si morirà, quanto tempo durerà l’agonia e quanti dolori si dovranno sopportate prima di arrivare alla fine della propria esistenza.
Cosa concludere? Come comportarsi in questi momenti difficili, per utilizzare un eufemismo?
Certo una possibile soluzione, forse l’unica, ma difficoltosa e impegnativa, è l’accompagnamento del morente fino alla fine dei suoi giorni: imparare a curarlo, capirlo, ascoltarlo, facendo in modo che la dipartita possa avvenire nella comprensione, nella benevolenza e nel sollievo. Operatori attenti, preparati, affettuosi unitamente al sorriso delle persone care sono elementi che indubbiamente facilitano l’uscita dalla vita. Ma tali parole facili, sono poi difficili da tradurre in atti concreti.
Buon riposo, Aurora.
Daniela Leban, esperta in bioetica giuridica