Tutti sostengono che quella domenica di fine estate è una giornata come le altre; non per Anne-Marie, il marito Patrick e Théo, terzo ed ultimo figlio che, ormai diciottenne, va ad abitare in una città poco lontana dalla casa dei genitori. Anne-Marie prepara una colazione perfetta, ogni giorno identica a quella del giorno prima e soffre: non potrà ripetere i gesti quotidiani e scontati a cui si è abituata, nulla sarà più come prima, sente che perderà la complicità creatasi con il figlio e il suo ruolo di madre subirà profonde trasformazioni. La comunicazione affettiva prediletta da Anne-Marie non si esprime attraverso le parole, ma con le azioni. Una colazione preparata con cura e perfetta equivale a un “ti voglio bene” mai detto. Leggendo “L’ultimo figlio” di Philippe Besson, possiamo assistere a un climax del non detto parallelo all’aumento della disperazione della protagonista: mentre durante la mattina e il primo pomeriggio la donna formula qualche frase, di solito inappropriata e fuori luogo poi, dopo la visita all’amica Françoise, si esprime sempre di meno, parla molto interiormente, ma senza condividere quello che prova nel profondo. Il suo linguaggio è costituito da gesti; i suoi sentimenti e le sue emozioni non si traducono in parola, ma in azioni, piccole o grandi che siano, fino a contemplare il gesto estremo. Per Anne-Marie l’uscita di casa dell’ultimo figlio è una realtà troppo difficile da affrontare, soprattutto da sola e in silenzio, come lei stessa ha scelto di fare, nonostante la presenza di un marito comprensivo, seppur di poche parole, di un figlio empatico e di un’amica vera su cui contare.  Per iniziare l’elaborazione della perdita è necessario verbalizzare i propri pensieri e le proprie emozioni, non è sufficiente pensarle e rimuginarle. La donna sceglie il percorso opposto, immergendosi in una realtà stagnante, contraria al cambiamento e potenzialmente drammatica. Già aspettando Théo per la colazione inizia a vivere di rimpianti e di ricordi, non si concede di guardare avanti, di pensare ad una Anne-Marie in evoluzione, come le suggerisce la sua amica Françoise: “Ne conoscerai un’altra di felicità! A partire da quella di diventare nonna. Non avrai più i tuoi figli, ma avrai dei nipotini”. “I nipotini non sostituiscono i figli. Anche se li amiamo, non danno le stesse soddisfazioni, non suscitano le stesse paure, non procurano lo stesso appagamento.” Questa replica è l’indiscutibile certezza della protagonista: perderà ogni capacità di controllo sul figlio, non saprà più chi frequenterà, dove andrà, se condurrà uno stile di vita più o meno sano. Una profonda ferita narcisistica si apre in Anne-Marie, molto difficile, almeno al momento, da colmare. Al momento della separazione da Théo la donna scoppia in un pianto inaspettato e irrefrenabile: “Con gli anni, con l’età, ha imparato sempre di più a dominare gli sfoghi. L’emozione deve essere davvero troppo violenta. Si porta le mani al viso per asciugare le lacrime, ma niente, altre ne prendono il posto. Sono lacrime inarrestabili, inesauribili”. Patrick tenta di consolarla, ma lei si allontana per non farsi vedere in quello stato; ama e necessita della perfezione in questo momento come in ogni sua routine quotidiana per poter fronteggiare la paura di perdere la stabilità, ma la vita è un continuo cambiamento e rimanendo immobili, in una costante e rassicurante comfort zone, lo sviluppo psicologico si blocca. Nella narrazione scopriamo che due eventi traumatici, non adeguatamente elaborati, gravano su quest’ultima separazione. Il primo riguarda l’incidente stradale di Théo che da ragazzo aveva rischiato la vita. Da allora Anne-Marie si era convinta che, dopo un’esperienza di questa intensità, per lei, come per ogni madre, fosse impossibile “lasciare andare via” il proprio figlio e che, almeno, fosse necessario tenerselo con sé il più a lungo possibile. Il secondo vede una ventenne Anne-Marie vivere la sua prima grande perdita per la morte improvvisa in un incidente stradale di entrambi i genitori. Esiste un parallelismo anche tra l’età in cui l’ultimo figlio lascia la casa genitoriale e quella in cui lei rimane orfana. Théo poteva scegliere di rimanere con lei protetto e rassicurato, mentre lei non ha avuto scelta: ha dovuto assumersi molte responsabilità sottoponendosi a forti rinunce. Nel finire della giornata Anne-Marie esce per una passeggiata e percorre tanti luoghi visitati assieme a Théo; senza essere riuscita a esprimere i propri sentimenti, la disperazione è aumentata. Sul ponte della città “avvicinandosi al parapetto contempla il fiume, il flusso calmo e regolare, le acque che scintillano nell’ultimo sole del giorno. Inevitabilmente il suo fantasticare la riconduce a Théo.” e “Quasi senza accorgersene, Anne-Marie scavalca il parapetto, il gesto le sembra così naturale, così evidente, così facile, si siede lì, con le gambe penzoloni nel vuoto. Si china verso il dirupo, l’acqua le appare fresca, chiara, le farebbe bene, basta sporgersi un po’ e lasciarsi andare. Chiude gli occhi.” A salvarla arriva una mano salda e sicura, quella di Patrick: ‘Dai, vieni, torniamo a casa”. A casa, Patrick le farà trovare qualcosa di nuovo, ma è una sorpresa che neanche al lettore è dato sapere…

Ilaria Bignotti, psicologa

Besson P. “L’ultimo figlio”, ed. Guanda, Milano, 2022

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