Leggeremo le parole di quattro donne dalla vita molto diversa: chi nasce ricca, chi povera, chi ha un’esistenza apparentemente agiata, chi si rimbocca le maniche e chi vede salva la vita esclusivamente per il cognome che porta. Ogni persona vive innumerevoli lutti e perdite sia in senso letterale che lato. Ciò che le accomuna, invece, è la capacità di rinascere dopo queste sofferenze, farci dono dei loro racconti di vita, entrando finalmente nella nostra memoria, individuale e collettiva.

Rosa Balestreri arriva da un’infanzia e una giovinezza fatte di botte, violenze, carcere, soprusi di ogni genere, finché non si riscatta: a 32 anni impara a leggere e scrivere e, anche grazie a questo, si rialza sempre, fino ad arrivare a collaborare con Dario Fo. La sua passione, vietatale dal padre, è il canto. Rosa ci regala spezzoni della propria vita in un monologo cantato. “Canto e cuntu, cuntu e cantu/per non perdere il conto/Mia nonna fu vedova a trent’anni, nove figli ne aveva. Mia madre sposa a quattordici, quell’uomo non lo conosceva. Erano botte bastonate e fame […]. Per le botte, lo perse mia madre il primo figlio/E a sedici anni anch’io, il mio primo, per le botte/Il terzo no, fu per l’amaro. Fu la galera che avvelena/Stasera vado e corro insieme al vento/ad aprire le porte della storia./Stasera, per un momento/voglio ridare vita al passato e alla memoria./Stasera, con la vampa dell’amore/scavo una fossa al mio dolore. […] “. Ed ecco la rinascita: “io avevo paura a salire sul palco ma mi dicevo: Ro’ ricordati/Del porcile Via Martiez, della violenza della vetreria, del prete malandrino di Palermo/La fame, la galera, le mani che si spaccano nel sale,/ricordati chi sei, da dove vieni. Ricordati tua figlia, di darle da mangiare. Di tua sorella, di quando quello davanti agli occhi tuoi/La prese e l’ammazzò. […] Vado ancora come va il vento/A cercare pace solo un momento/Voglio spaccare, spaccare i cieli/Per far piovere, piovere amore/Questa è la canzone mia per voi, amici nuovi”. Rosa, nella sua generosità, non si ferma qui e conclude: “Guardatemi, vedete? Eccomi./non sono morta, sono ancora viva.”

Pur vivendo un’infanzia di lussi e ricchezze, di viaggi sfarzosi tra Argentina, suo Paese natale, e Francia, Silvina Ocampo non farà mai pace con sua sorella Victoria che è la primogenita e, al contrario di Silvina, appare sempre e per sempre perfetta. Perdonerà, invece, la sorella Clara, quasi sua coetanea e compagna di giochi, morta da bambina lasciandola sola. Avendo chiuso la partita con lei e con la sua morte, Silvina ha potuto accogliere Clara nella propria memoria, ma questo non avviene per Victoria. Silvina dice: “Lasciatemi dire una cosa/ Sì, sono stata crudele/mai, però, quanto mia sorella, l’infame […] La donna più affascinante di Argentina, più celebrata di Evita/Di certo più potente-più fortunata, è chiaro/Misteriosa, elegante, colta, intraprendente/E che bellezza, poi.[…] In casa eravamo in sei. Sei sorelle, dico[…]/Ma Clara la quinta è morta presto, è diventata blu un giorno: è morta/Dunque […] sono rimasta io.[…] Ed è tanto più pericoloso, il Male, quando si veste di organza e di tulle[…]. Victoria quando si è sposata ha preteso di portare via Fanny, bambinaia che si occupava di me.[…] Nessuno poteva dire di no a Victoria, era impossibile. Lei era così fragile, così dura. Non gliel’ho perdonato.

La madre di Lorenza Mazzetti muore dando alla luce lei e la gemella Paola nel 1927. Così il padre le affida a sua sorella Nina, moglie di un cugino di Albert Einstein. La coppia ha già due figlie, ma le accoglie bene. Il 3 agosto ’44, la zia e le cugine vengono giustiziate perché ebree e parenti dello scienziato. Le gemelle si salvano solo per avere una religione e un cognome non ebrei, un cognome che suona bene: “Siamo state risparmiate dalle SS perché ci chiamavamo Mazzetti e non Einstein”. Domandiamoci se ancora oggi sia pensabile una differenziazione di tal genere! Le sorelle soffrono molto, ma reagiscono e si creano una vita, anche appagante. Gli altri, però, continueranno a pretendere da loro il racconto di quei fatti. Dopo decenni di sofferenza, Lorenza ne scrive e, anche in questo modo, introietta il lutto e la violenza subita, come ci racconterà. “Quando sono stata di nuovo brevemente felice ho capito che quello che ci capita non è tutto contro di noi. È con noi, bisogna starci insieme”.

Vivian Maier è una governante e una fotografa. Conosciamo la sua vita grazie agli studi di Ann Marks: “è emersa una storia familiare terribile, di cui lei non aveva mai parlato […] Droghe, violenze, alcol, bigamia, figli illegittimi e/o abbandonati, rifiuto dei genitori, disturbi mentali. La madre […] instabile, il padre […] alcolizzato. Il fratello […] tossicodipendente e schizofrenico.” Si occuperà della sua educazione la nonna. Ci stupiamo di come Vivian abbia potuto provare affetto per tanti bambini, crescendoli. Nel suo monologo, dedicato ai piccoli Frank e Sarah, risponderà punto per punto alle loro domande scritte in una lettera. “Sono nata quando [i miei] si erano già separati. Mio padre non lo ricordo, mia mamma diceva che la picchiava, beveva e perdeva i soldi al gioco. Lei invece era pazza […]. Non ha potuto occuparsi di me, cosa che ha fatto mia nonna. […] Ho avuto un fratello maggiore che non ricordo. […] Adesso sono senz’altro tutti morti […]. Non ho loro notizie da più di trent’anni. Sono cose che possono succedere.” Solo alla fine del suo monologo, leggiamo la fondamentale eredità lasciata da Vivian: “Alcuni pensano che la vita sia una tragedia/No, è una commedia, bisogna solo ricordarsi di sorridere”.

Grazie a queste donne, conosciamo una Concita sì forte e coraggiosa, ma anche dolce, capace di ringraziare con parole affettuose la madre “che arriva sempre quando deve e quando arriva canta.”

Ilaria Bignotti, psicologa

De Gregorio C. ”Un’ultima cosa”, ed Feltrinelli, Milano, 2022.               

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