Le mie mani attraversano l’ennesimo strato di fango. Chissà che cosa troverò qui sotto. E, soprattutto, se saprò riconoscerlo. L’alluvione ha trasformato tutto in una macchia informe ed ha assorbito in pochi istanti tutte le sfumature della nostra vita. Guardo mio padre, che invecchia di un anno ad ogni ora che passa. Lo osservo mentre guarda in alto, come alla ricerca di qualcosa che non sia distruzione e fatica. Arriverà anche la fine di questa giornata. Quella di domani non sarà diversa da quella di oggi; serviranno mesi a ripulire tutto.

Metto tutto ciò che è rimasto dei gomitoli di cotone, che mia madre usava per ricamare gli asciugamani, in un sacchetto. Verrà qualcuno a portarli via, come tutto il resto. Sorrido pensando a quegli sprazzi di intimità della nostra casa esposti alla mercè di sconosciuti dai quali li abbiamo sempre protetti. Il re è nudo.

L’acqua se ne va e lascia dietro di sé i resti di un’umana fragilità della quale ci siamo sempre fatti scudo. Sono solo cose. Avrò ripetuto dentro di me questa frase almeno un centinaio di volte. Sono solo cose. Certo. Cose che non ci sono più. Cose che avevano per noi un’anima, che trattenevano in sé la dolcezza dei ricordi che portavano. Le avevamo scelte per questo.

Mia madre ha lasciato sghiacciare un vasetto di ragù al sole. Lo mangeremo più tardi insieme al pane. È indescrivibile l’odore del fango. Si impregna nei vestiti, nei capelli, nella pelle. Pervade le membra, ti sembra continuamente di mangiarlo e di respirarlo. Sono proprio stanca. Mi appoggio al badile, come se questo potesse darmi qualche secondo di sollievo. Le gambe e le braccia mi fanno male da giorni.

Una donna che non ho mai visto mi porta dell’acqua. Mi chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. Abbiamo bisogno di tutto e, allo stesso tempo, di niente. Anzi, di una cosa avrei bisogno. Di avere il tempo per piangere. Per piangere il mio mangiadischi infangato, le mie scarpe di nozze irriconoscibili, i quaderni che mio padre aveva meticolosamente conservato, come un monumento ad uno spazio e ad un tempo che, adesso, non esistono più. A dire il vero, con quel fango che ci divora, mi viene da chiedermi se siano mai esistiti.

Non buttare via le viti, possono sempre servire. Povero babbo. Le tue adorate viti in pochi giorni saranno tutte arrugginite e saranno da buttare comunque. Ma come faccio a dirtelo? Come faccio a spiegarti una cosa che sai già, ma che non vuoi accettare? Così le lavo, una ad una. Lo faccio con amore, come si rimbocca la coperta ad un figlio prima che si addormenti.

Ci togliamo i vestiti infangati nel giardino, come se volessimo preservare il piano di sopra dall’inferno che il piano terra ha dovuto sopportare. Oramai è scomparsa ogni forma di pudore. Facciamo tutti così, nessuno qui si scandalizza più se vede qualcuno girare in mutande. I corpi scoperti al sole sono il marchio della fatica. Chissà se la lavatrice riuscirà a lavare via il fango. Poi mi ricordo che la lavatrice non c’è. In qualche modo faremo.

Mio marito mi tocca la spalla. Siamo stanchi tutti e due. Adesso ci lasceremo avvolgere da un sonno tormentato, in cui vedremo torrenti di fango attorno a noi. Ormai succede tutte le notti. Dicono che è il trauma, che con il tempo passerà. Che cos’è un trauma? Ah già, la paura. Mi devo concentrare per ricordarmi che ho avuto paura. Ma quando ci penso, provo la stessa sensazione di quando si immerge la testa nell’acqua del mare. All’inizio si pensa di trovare sollievo ma poi, man mano che il tempo passa, avanza prepotente il bisogno di riemergere, perché prevale la paura di annegare, di rimanere senz’ aria. Ed è proprio così che riemergo dai miei ricordi, strappandomi con la forza dalla furia di quella paura di non trovare i miei genitori e la mia casa.

Immergo per l’ultima volta di questa giornata le mani nel fango. Che cosa troverò questa volta? Lo saprò riconoscere? Di nuovo la paura. Di non capire che cosa sto vedendo. Di non ricordare. Di lasciare andare ciò che vorrei trattenere a me con tutte le forze.

Monica Betti, insegnante di Scuola dell’infanzia

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