Fin da bambino ho pensato al giorno dei defunti come a un promemoria. Una specie di riconoscimento sociale del fatto che la vita quotidiana, fosse quella durissima dei contadini dei secoli passati, fosse quella scandita minuto per minuto da impegni e trasporti delle moderne città, avrebbe inevitabilmente allontanato i vivi dai morti, avrebbe rapito nella routine le occasioni di contatto, e infine, forse, anche il ricordo. La ricorrenza ha sempre avuto il nome sintetico “i Morti”, così come Ognissanti era “i Santi”. Sentivo raccomandare con aria di rimprovero “…da quanto tempo non vai al cimitero? Vacci almeno per i Morti!” oppure, commentare dolenti di senso di colpa “…ormai a trovare i miei genitori al cimitero ci vado solo per i Morti”.

Talvolta si partiva per il paese perché molti dei morti più amati, Lari riconosciuti solo per istinto, erano sepolti là. Minuscoli cimiteri incrostati di lapidi lontane, abbandonate, dove gli strati della povertà digradavano nel tempo vegetale, compenetrati di muschio, d’erba, nomi dilavati dagli anni dove si decifrava un bisnonno, un avo dimenticato.

Loro sono trasparenti.
Abitano la luna piena
lo spazio sotto al cuscino.

Vivono oltre il diaframma
nell’aria troppo limpida
loro sono noi
ma in un altro tempo.

Loro sono città bianche
e tesori di alberi
e fiori che stanno sulla soglia
già un po’ di là, sono nostri
e loro.

Era, inevitabilmente, un’occasione d’incontro con parenti e amici che erano rimasti là o che vi erano giunti in quel giorno, anch’essi chiamati a convegno dai loro defunti, dai defunti comuni. Era, dunque, anche un appuntamento: “… ci vediamo per i Morti” si diceva, oppure in precedenti saluti tardo estivi alla domanda “…quando tornate?” si rispondeva “…non so, in ogni caso verremo su per i Morti”.

Non è forse un bell’aiuto avere un giorno speciale in cui il confine si fa più labile, in cui ci si rincontra nello spazio e nel tempo anche con chi non è più nel tempo? Non c’è forse una dolcezza in questo riconoscere che ci serve un piccolo aiuto per ricordare, per non perdere il contatto? Non solo ricordando di ricordare, di onorare. Ma ricordando anche che onorare è bello, che onorando i nostri morti onoriamo noi stessi, la vita, la civiltà. La quale consiste anche (soprattutto?) nel trasportare l’amore, il rispetto, la devozione attraverso il tempo e oltre il tempo (Deorum manium jura sancta sunto).

Certi minuscoli insetti
i più sottili fra i fili d’erba
i semi fatti a elica, si dice
possano percepirli.
Talvolta, cadendo con la giusta rotazione
avvertono l’inconsistenza
la transitabilità
talvolta passano il segno
volano nelle loro mani
e si fermano.
Loro li osservano nei palmi
si innamorano
si addormentano
sognano una lacrima.

E così bambine, così ridenti e dolci e infinitamente serie come i bambini, le tradizioni nelle quali si preparano cibi e bevande per i defunti che tornano a consumarle in quel giorno, per essere ancora a tavola insieme per un solo magico giorno all’anno. Essere capaci di provare la gioia di questo ritorno simbolico, la colorata allegria dei Dia de Muertos (Esta fiesta nacional marca el regreso temporal a la tierra de los seres queridos fallecidos).

Loro stanno seduti
su seggiole di legno
e paglia
infinitamente lontani ma accanto
con la mano
che si avvicina fin quasi
a toccarci
e se il silenzio
se la limpidezza
quando l’amore si fa semplice
a volte
puoi sentire il profumo

Il nostro tempo occidentale mal sopporta i riti. La festa è concepita come occasione di divertimento o di adeguamento a una norma esogena a fini commerciali. Ma la festa è anche, e prima di questo, Shabbath, sosta, uscita dalla ruota del criceto, spazio e tempo per indugiare nell’intimo, nel sacro, comunque in un altrove protetto dal Samsara meccanico in cui siamo tutti intrappolati.

È nel vuoto e nel silenzio che possiamo incontrare i nostri morti. Li portiamo con noi ogni giorno, sono cuore del nostro cuore assieme ai tanti che ci abitano (che abitano ciascuno di noi). E il silenzio arriva, perché si cerca, perché si fa trovare.

Ma quando le giornate iniziano a farsi più corte, la sera e il silenzio riprendono il loro spazio dorato, la distanza si assottiglia, il candore, il delicatissimo profumo dei crisantemi stende un filo. Ritrovarsi è sorriso. Ritroviamoci. Lasciamoci ritrovare.

Loro sono invincibili nella pazienza
infinitamente assorti
i pensieri procedono col tempo dei ghiacciai
canto muto e melodia di vento
che possono essere intesi
solo / accelerandoli mille volte
solo / rallentandoti mille volte
allora ti accorgi
che chiamavano proprio te

[Le poesie della serie “Loro” sono di Michele Bellazzini, l’opera che precede il testo è di Maura De Mezzo. Entrambe le cose sono estratte dallo spettacolo Solo il bene è profondo di Roberta Landuzzi]

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