Anna, madre sui trent’anni di due bambine ancora piccole, vive un rapporto di amore molto intenso con il marito Amos; i due condividono, con partecipazione e reciproco rispetto, una tranquilla vita lavorativa e familiare fino a quando, una domenica mattina Amos, seppur per pochi minuti, “dimentica” il suo mondo. Il giorno seguente si precipitano spaventati a Roma per una visita specialistica. Mentre Anna disfa la valigia, Amos le dice che vuole uscire per una passeggiata: “Non preoccuparti, sto bene, arrivo a Trinità dei Monti e rientro”. Non farà mai più ritorno, di lui si perderà ogni traccia. Ha avuto un’altra amnesia e si è perso? Oppure ha deciso di andarsene, di abbandonare lei e le bambine? Tornerà? Anna se lo chiederà per tutta la vita.
Il libro “La cerimonia dell’addio” di Roberto Cotroneo, è un libro che parla del dolore e, nello specifico, del dolore di un lutto destinato ad essere interminabile, perché Anna non si trova ad affrontare la morte del suo amato compagno e padre delle sue due figlie, ma la sua scomparsa, improvvisa e misteriosa. Mentre la morte implica una perdita irreversibile, nella scomparsa regna l’attesa, in questo caso, un’attesa interminabile.
Il lutto diviene eterno quando viene coltivata la presenza attraverso l’attesa: se Anna smettesse di attendere, Amos morirebbe, quindi, continuare ad attenderlo, significa continuare a farlo vivere.
Anna vive, non solo i primi mesi dell’assenza di Amos come se egli dovesse tornare all’improvviso, ma anche nei mesi, negli anni e nei decenni che si susseguono, la speranza rimane inalterata. Si rifiuta di cambiare le chiavi, si ostina a non allontanarsi da casa per alcuni giorni consecutivi: “Non mi piace la casa disabitata. […] continuo a credere che lasciare la mia casa sia come rinunciare a un posto di guardia e a non essere più sentinella di un suo ritorno”. Cotroneo dà forma alla cristallizzazione dell’attesa attribuendo ad Anna i caratteri melanconici legati alla perdita: lui non è più qui, ma proprio per il fatto di non essere più qui, l’assenza diventa la forma più radicale della presenza.
Quarantatré anni, è il tempo che Anna impiega per decidere di svuotare l’armadio dei vestiti di Amos, per decidersi ad accettarne la scomparsa: “È accaduto una mattina. Mi sono svegliata, ho guardato la parte del letto dove ha dormito per sei anni e ho pensato: “Non ci sarà mai più”. Quel 23 novembre 2019 è stata la cerimonia dell’addio: il tempo si è ritirato dal mio sangue ed è arrivato il rimpianto, tutto assieme.”
Il lutto diviene eterno quando si vive nel nome della perdita: “L’attesa è un atto di viltà. È un modo per stare fermi, per non cambiare nulla. Non ho affrontato il dolore, non ho combattuto contro la sorte. Ho spostato la speranza sempre più in là, alla fermata successiva. E aspettando, alla fine sono stata io a dimenticare il mio nome.”
Ripensando agli ultimi momenti in cui ha visto il marito, prima che uscisse dalla stanza di albergo a Roma per andare a fare una passeggiata senza fare più ritorno, Anna si scopre responsabile della perdita di Amos: “A distanza di tanti anni ho provato a mettere a fuoco il suo sguardo quando mi ha risposto: “Non voglio, non c’è bisogno”. Mi sono concentrata sulla prima parte della frase “Non voglio”. Era così assertivo. Più si allontana tutto il resto e più quella frase si fa nitida (….) E io che non mi avvicino per convincerlo a non andare, ma resto a metà, indecisa. Come se quel metro, forse due, che mi separava da lui fosse già lo spazio originario della nostra separazione. È impossibile dialogare con le ossessioni. Negli anni mi sono domandata quali erano stati i miei pensieri in quella mezz’ora in cui era del tutto normale che lui tornasse, a cosa ho pensato nel tempo di quella sigaretta, di quella passeggiata. Insomma, cosa speravo, ancora, quando la passeggiata era una passeggiata, la sigaretta durava il tempo di una sigaretta, e i minuti erano ancora tutti in ordine? Ho pensato che non sarebbe tornato? Una notte ho sognato qualcuno che non riconoscevo, poco più di una voce nella nostra strada di casa diventata buia. Mi diceva: “Lo sapevi da subito e non hai fatto nulla per fermarlo”. Lo sapevo da subito? È il mio tormento, ormai da anni. L’unico dei miei tormenti che non è mai diventato parola. L’unico che non potevo mostrare. Di cui non posso parlare, neppure adesso. Emma e Cecilia non devono sapere del suo sguardo di quel momento. “Non voglio”. Uno sguardo smarrito e indelebile, come il viso truccato di un attore che non può più tornare come prima, perché la maschera lo ha cambiato, la maschera è diventata il viso.”
Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa
R. Cotroneo, “La Cerimonia dell’addio”, Mondadori, 2023