Maria Grazia Calandrone, autrice di “Dove non mi hai portata”, è una donna affermata, scrittrice, poetessa, ha lavorato e lavora per Il Manifesto e Il Corriere della Sera. Si occupa anche di programmi per Rai Radio 3 e organizza laboratori all’interno di scuole, carceri e centri diurni.

“Ho cominciato a scrivere questo libro il primo gennaio 2022. Il 12 febbraio ho finito. (…) Questo libro è nato (…) quel 16 febbraio 2021, dai racconti dei telespettatori che mi hanno scritto (…) per rievocare spesso con amore grande i loro incontri con Lucia.” L’idea del libro, infatti, nasce da un’intervista dove la Calandrone racconta della tragica decisione, presa da sua madre Lucia nel 1965, di togliersi la vita dopo avere lasciato lei, di soli otto mesi, nel parco di Villa Borghese, e di quanto poco le sia rimasto di lei: due fotografie e un paio di guanti. L’autrice, così, decide di intraprendere un necessario viaggio a ritroso nel tempo lungo gli scenari di vita di sua madre, fino a Palata, un paesino del Molise, dove è nata, il 16 febbraio 1936, “la quarta femmina, indesiderata, suscita addirittura un filo di rancore”. Dalle sue ricerche, condotte con metodo giornalistico-oggettivo (documenti, immagini, incontri con testimoni) prende vita una bambina, Lucia, sveglia e sorridente, molto brava a scuola, impossibilitata a studiare a causa dei pregiudizi del padre contro le femmine. Maria Grazia si reca, soprattutto, nelle case fatiscenti dove la madre, da giovane, ha subito le umiliazioni e le violenze più dure, ascolta frasi, pronunciate in buona fede, che la fanno soffrire. Soltanto dopo aver visitato le città testimoni e protagoniste della vita di Lucia, sente di aver compreso il suo gesto estremo: “il suicidio è un eccesso di abbandono, è il superfluo, il ricamo di sangue sul male. Ipotizziamo che sia stato per questo, che davvero la mia mamma si sia uccisa per me: si tratta di andarsene, ma già sapendo di non poter sopravvivere al dolore e alla colpa di aver respinto una figlia. Gettando però, così, sulle spalle della figlia il proprio addio, come un mantello pesante, dal quale ella (io) si deve una volta per tutte divincolare.” Lucia sognava di emigrare a Milano con il suo amore Giuseppe, abbandonando un marito violento che era stata costretta a sposare. Arrivati nella grande città, “è sopraffatta dalle cose (…). Il moto perpetuo dei quadri metropolitani le mette in corpo una bella euforia, un friccicore che sa di futuro (…). C’è ‘il magazzino della famiglia italiana’, Standa, ci sono i supermercati Esselunga”. Si può anche andare al cinema! L’illusione, purtroppo, dura poco: il boom economico milanese termina così come il lavoro di Giuseppe. Lei, seppure incinta e poi neomamma, deve fare i lavori in nero in case signorili. Il sogno di Lucia si infrange, allora come oggi: “Gli emigranti di allora sono come gli arabi di oggi: stipati dentro case provvisorie piene di infiltrazioni, di spifferi e d’acqua, lavorano pochi giorni al mese e non possono programmare niente. ‘ Non è quello che avevamo sognato…’ Questo sospiro attraversa la storia, pronunciato in tutte le lingue e i dialetti del mondo con lo stesso dolore, la stessa rabbia, la stessa rassegnazione, come fossimo tutti la stessa persona.” Proprio per questo, per la coralità di questi sentimenti, Lucia e Giuseppe, impossibilitati a vivere una vita degna, decidono di consegnare la loro figlia al mondo. “L’amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. (…) Vita che torna a tutti.”

Ilaria Bignotti Faravelli, psicologa

M. G. Calandrone “Dove non mi hai portata”, ed. Einaudi, Torino, 2023.

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