Il dolore per la perdita di una persona cara non ha tempo e non si perde nel tempo. Sono diverse, infatti, le testimonianze letterarie ed epigrafiche pertinenti al mondo romano che ci raccontano, con le stesse emozioni di oggi, lo strazio dei genitori per la morte prematura del figlio, il cordoglio di una famiglia per il decesso del nobile capostipite piuttosto che l’inconsolabile malinconia per la scomparsa di una moglie devota e amorevole. Anche gli animali domestici, fedeli compagni di una vita, sono ricordati da versi e parole cariche di un’inconsolabile tristezza scritti sulla pietra con la consapevolezza che ciò che si è perso non è solo un prezioso amico ma è soprattutto la spensieratezza di un momento della propria esistenza che non tornerà più.”
Dietro il cordoglio, sempre composto e mai gridato, gli antichi Romani celavano tuttavia un complesso sistema di regole, riti e accorgimenti, messi in atto per “gestire” la morte, accogliendola il tempo necessario affinché l’intero nucleo familiare – schiavi compresi – e la casa che li proteggeva, potessero accettare e metabolizzare la perdita. Nel corso dei secoli, prima nella Roma repubblicana e poi in quella imperiale, alcune di queste norme sono mutate nel tempo, soggette ai gusti e alle mode; tuttavia, l’impianto generale è rimasto grossomodo intatto, non senza lasciare traccia anche negli usi funerari moderni di diverse regioni d’Italia.
La conoscenza dettagliata dell’insieme dei rituali atti a gestire la materialità della morte può avvenire attraverso la lettura della copiosa bibliografia prodotta negli ultimi quattro decenni, frutto delle ricerche afferenti l’ “Archeologia della morte”. Questa branca dell’Archeologia – dal nome inquietante ma non privo di fascino – si occupa di indagare e definire le pratiche e i gesti legati alla sfera funeraria basandosi parallelamente sia sui dati archeologici, e dunque tangibili, quanto sulla ricostruzione del complesso sistema di simboli e ideologie, del contesto di provenienza del defunto, del suo status e della società in cui esso ha vissuto e che senza dubbio hanno condizionato anche il suo passaggio al mondo dei morti.
Un mondo vasto quanto delicato nella sua complessità, sul quale vale la pena affacciarsi per iniziare a scoprirne gli aspetti più caratteristici.
Innanzitutto, una precisa norma giuridica contenuta nelle XII Tavole – corpo di leggi redatto nel 451/450 a.C. – vietava esplicitamente di seppellire entro lo spazio abitato, sancendo di fatto la nascita delle necropoli fuori dalle mura urbiche e in aree appositamente organizzate per lo scopo, spesso lungo le viabilità principali. A seconda del momento storico, inoltre, i corpi potevano essere cremati – ossia ridotti in cenere e frammenti ossei mediante una combustione parziale – oppure inumati – seppelliti integri nella nuda terra oppure, a seconda del ceto di appartenenza, in un sarcofago dal materiale e dall’aspetto più o meno di pregio.
Quasi tutte le strade che uscivano da Roma erano circondate da sepolture – disposte anche su più file parallele al percorso – che andavano ad aumentare di numero (e di prestigio) a mano a mano che ci si avvicinava alle porte della città. Mausolei, piccoli sepolcri familiari e colombari erano solo alcune delle tipologie di edifici costruiti in primis per accogliere le spoglie dei defunti ma anche per coltivare in chi restava la memoria degli avi e lasciare al contempo un segno tangibile del proprio passaggio terreno, soprattutto nel caso delle gentes più importanti. Morte e memoria, un binomio imprescindibile: non è un caso, infatti, che il termine “monumento” derivi dal latino monumentum, “ricordo” e dal verbo monère, “ricordare”. In fondo non essere dimenticati, lasciare un buon ricordo di sé, sapere di essere stati amati non è ciò che tutti desiderano?
Non solo. Nel rituale funerario romano il ricordo aveva un valore ancora più potente, tanto da riguardare anche la cura con cui i parenti predisponevano il corpo per il trapasso. Cremato o inumato non faceva differenza, il defunto avrebbe affrontato il suo viaggio nell’Aldilà accompagnato dagli oggetti più cari, gli stessi che usava in vita, testimoni silenziosi e amorevoli di un tempo che non c’era più. Ecco, dunque, che tra le mani degli archeologi intenti a riportare alla luce le sepolture compaiono spesso – per citarne alcuni – collane, spilloni per capelli, giocattoli in terracotta, armi e monete. Proprio quest’ultime, se rinvenute nella bocca, sugli occhi o in prossimità della testa, sono chiamate “Obolo di Caronte” e testimoniano un rituale antico oltre ad essere un simbolo, ancora una volta, di quell’amore che non abbandonava mai, neanche dopo la morte. Capitava infatti che i parenti dotassero il defunto di una moneta di piccolo valore affinché una volta arrivato nell’Aldilà fosse in grado di pagare un tributo a Caronte ed essere traghettato nel mondo morti attraversando “il lago molto esteso e senza fondo” (Aristofane, Le rane, vv. 140-141). Tuttavia, se terminata la navigazione e raggiunta la sponda il defunto concludeva il suo ultimo viaggio unendosi alle altre anime in un luogo buio e freddo dove sarebbe rimasto per l’eternità, cosa accadeva ai vivi, invece, nei giorni della morte del loro caro e in quelli immediatamente successivi?
Le fonti antiche, come si è detto, raccontano di una ritualità precisa quanto complessa che iniziava con la constatazione della morte, a cui seguiva la chiusura degli occhi e un bacio sulla bocca per evitare che l’anima abbandonasse il corpo. La salma veniva poi lavata, profumata e predisposta per la processione che l’avrebbe portata nel luogo dell’elogio funebre e della sepoltura dove, come si è detto, si sarebbe scelto a seconda del momento storico e della moda se procedere alla cremazione o alla inumazione. Una volta sistemata in una collocazione più o meno monumentale e compatibile con lo status avuto in vita, i familiari sarebbero tornati nella loro abitazione, celebrando un banchetto il giorno stesso del funerale. La morte veniva considerata una presenza da “purificare” pertanto la casa e chi l’abitava dovevano essere opportunamente e ritualmente mondati; dopo nove giorni di lutto, la celebrazione di un nuovo banchetto sanciva il termine del periodo e la ripresa delle normali attività quotidiane. Tuttavia, il calendario romano concepiva diversi momenti ufficiali volti a commemorare i propri cari e ad onorare gli Dei inferi. A febbraio (dal 13 al 21) c’erano i Parentalia, a maggio (9, 11 e 13 maggio) i Lemuria e i Rosalia, in aggiunta alla data di nascita e di morte del defunto. In tali occasioni si faceva visita al sepolcro, si celebravano banchetti e si facevano offerte, si pregava e adornava la tomba con fiori freschi.
Un filo rosso, dunque, che legava chi non c’era più a chi c’era ancora: un filo rosso tessuto in vita e rimasto saldo anche nella morte, rinvigorito dai rituali messi in atto per gestire il lutto, dalle cerimonie e dalle commemorazioni per mantenere vivo il ricordo proteggendolo dal dolore. Un filo di emozioni antiche ma assolutamente attuali, che attraversa tradizioni arrivate in parte anche nei nostri giorni e legano centinaia di migliaia di generazioni, accomunate da un’unica certezza: “La vita dei morti sta nella memoria dei vivi”, scriveva Cicerone (Filippiche, IX).
Chi vive nel ricordo dei propri cari, vive per sempre.
Chiara Maria Marchetti, Archeologa, membro Ecec – Laboratorio di Ricerca “Eredità Culturali e Comunità (UniFe).
Bibliografia:
- V. Nizzo, Archeologia e antropologia della morte. Storia di un’idea, Bari 2015
- https://www.treccani.it/enciclopedia/l-archeologia-delle-pratiche-funerarie-mondo-romano_(Il-Mondo-dell’Archeologia)/
- https://www.academia.edu/43051121/Culto_e_riti_funerari_dei_Romani_la_documentazione_archeologica_2011_Thesaurus_cultus_et_rituum_antiquorum_ThesCRA_VI_Stages_and_circumstances_of_life_Fondation_pour_le_Lexicon_Iconographicum_Mythologiae_Classicae_LIMC_Basel_Los_Angeles_2011_pp_198_215_