Dare voce alle emozioni, poterle nominare, riconoscerle, accettare e narrare è un tema centrale del lavoro di familiarizzazione con la morte a cui tutti siamo chiamati.

Narrare a noi stessi ciò che sentiamo e riuscire a comunicarlo agli altri, ci aiuta e aiuta a superare il sentimento di estraniamento e di smarrimento che ogni perdita determina.

Siamo relazione, ci nutriamo di relazioni, sopravviviamo grazie alle relazioni e quando perdiamo i nostri altri significativi, li rendiamo eterni con la narrazione.

Narriamo grandi storie per non dimenticare e far dimenticare, ma soprattutto, ognuno di noi racconta piccole storie quotidiane che ci permettono di non disintegrarci dopo una perdita.

Sfogliamo la galleria del nostro cellulare, riprendiamo le foto che ci ritraggono nel tempo precedente, osserviamo con occhi diversi gli oggetti che abbiamo sempre utilizzato con noncuranza. 

Cerchiamo storie che possano consolarci e che quegli oggetti e quelle immagini racchiudono. Storie già vissute, ancora da narrare, che diventeranno memoria: memoria personale, familiare, di gruppo. 

Ci auguriamo che nel sogno quella memoria produca ancora realtà e che quella narrazione che fatica a mostrarsi, dia sfoggio di sé nel linguaggio onirico. 

Il processo narrativo proprio del lavoro del lutto che ogni persona si trova ad affrontare nel corso della sua vita, attraversa, per molti aspetti, anche il lavoro dell’archeologo che, con mani sapienti, ricerca, ritrova, compone una memoria antica attraverso le tracce degli oggetti scelti allora per narrare la morte, per comunicarla ai vivi, per lasciare traccia di chi vivo non è più.

Siamo partiti da questa consapevolezza, archeologi, psicologi e pedagogisti, per recuperare le tracce di storie non ancora raccontate nei reperti degli scavi archeologici di via Appia 39.

Abbiamo raccontato ai nostri studenti e alle nostre studentesse il significato della narrazione nel lutto, abbiamo ascoltato i loro sguardi e recepito le domande dette e le tante rimandate. Abbiamo guardato i reperti archeologici scelti per noi perché potessimo percepire assieme quanto avevano da comunicarci. E le storie sono iniziate. È stato facile pensarle e più difficile vederle. Quando le abbiamo viste siamo stati capaci di capire che stavano funzionando, che erano buone storie per noi e per gli altri.

Magia e potere della narrazione: rendere comprensibile a sé e agli altri un pensiero che riesce ad accoglierne altri e a trasformare un’emozione in un racconto.

Il laboratorio, che dagli scavi è arrivato in aula e dall’aula, è tornato sul sito, è il processo affascinante e un po’ magico che ci ha coinvolto in questi primi mesi del nuovo anno, per un percorso ancora lungo da compiere assieme.

Paola Bastianoni, direttrice del Laboratorio “Uno sguardo al cielo” (UniFe).

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