Arrivato a 45 anni posso dire di avere avuto modo di confrontarmi con la perdita e con la morte. Tre anni fa è mancato mio padre, ma prima di lui ho perso amicə e anche pazienti, prima ancora nonne e zii… Persone cui ho voluto bene. Se dovessi descrivere che cosa la morte è stata per me, direi, prima di tutto, la percezione di un errore nell’esperienza. Come se una guaina di senso che avvolge invisibile gli spazi che mi circondano si fosse squarciata e, nel punto in cui prima era stata la persona amata, ci fosse un buco; mentre, tutt’intorno, la trama fosse ancora la stessa: una trama in cui la persona morta esisteva ancora e mi aspettava nell’altra stanza, come nella poesia di Scott Holland. Come se, per la mia casa di Milano, per lo studio in cui parlavo con i pazienti, per il treno che mi portava da un pezzo all’altro della mia vita, per tutti questi luoghi, a Parma ci fosse ancora mio padre al lavoro nel suo studio. Come se, nel momento in cui mi ricordavo che non era così, li avessi aggiornati, uno ad uno, tutti quegli altri spazi del mio quotidiano, in cui lui non era mai venuto, ma in cui era sempre stato presente. Come se avessi dovuto convincere il pezzetto di me che li abitava che, anche se non poteva averne la prova, quella notizia era vera, e ogni volta fosse altrettanto doloroso. Così, per ogni luogo, per ogni morte, un po’ alla volta, lo strappo si integrava nella trama della realtà, come un’asola, una finestrella nel tessuto i cui bordi venivano ricamati tutt’intorno, con un disegno nuovo per cui, la loro assenza era sempre stata lì, in quel punto della mia esperienza. Questo per me è l’elaborazione del lutto. Ma la cosa strana è che, sotto la nuova trama, rimane sempre la vecchia in cui tutt3 loro sono viv3. E nei momenti più strani salta agli occhi: come se, in un gioco bizzarro di luci, la vecchia trama fosse di nuovo più visibile del ricamo che l’ha ricoperta. E tutta quella gente passata, cui ho voluto bene, è ancora nell’altra stanza. Sì, certo, è ciò che chiamiamo “memoria”, ma anche “identità”. Loro sono me, e io sono loro.

Con il tempo, però, il tessuto si fa pieno di queste finestre aperte sul mistero che, quando ci guardo attraverso, evocano due sentimenti più di tutti: malinconia e ipocondria. Reazioni al dolore della perdita e al memento della fine, che riflettono, forse, il processo di elaborazione del lutto, ma che ad ogni perdita, ho l’impressione, vengono ad abitarmi per un tempo sempre più lungo. Malinconia e ipocondria per me, sono due sentimenti opposti. Da un lato, quello malinconico, a suo modo dolce e pieno di senso, di affidamento alla morte, come ritorno a ciò che si era prima di nascere, a quel vuoto che non è buio, non è luce, non è silenzio, e che ogni notte il nostro cervello ritrova tra una fase REM e l’altra, entrando in un sonno profondo e senza sogni. Dall’altro, l’ipocondria, la paura del morire, voce del verbo morire (quando?), un processo in atto nel nostro corpo sempre, di cui non abbiamo controllo. La vita è una malattia fatale. Non so se lo ha detto Jung, Laing, o chi altr3… ma ha senso, ed è una consapevolezza che risveglia la percezione di processi corporei che di solito ignoriamo: una vita del corpo dimenticata, piena di doloretti continui e contrazioni inconsulte, sensazioni apparentemente inutili, che ci sembrano improvvisamente l’annuncio del nostro disfacimento, e invece non sono che la vita “umile” del corpo, quando non siamo distratt3 da quella più “alta” della ricerca di senso e felicità.

C’è poi il tema dell’eredità. Dopo ogni perdita, piccola o grande, c’è un’eredità. Questa idea di ricevere un lascito e di doverne fare qualcosa, di non poterlo disperdere. Nel caso di mio padre, è stato, tra le altre cose, una biblioteca. Un tempio di carta e di polvere, un luogo di ricordi e di scoperte su aspetti della sua vita che non sono mai state parte della mia, e rimarranno ai miei occhi per sempre parzialmente indecifrabili. Il primo impatto è stato la scoperta: il desiderio di perdermici dentro e rimanere lì, di studiare e incorporare tutta quella conoscenza che mio padre lasciava e che era stata immanente al suo pensiero e alla sua ricerca. Poi, di fronte alla consapevolezza che non sarei mai riuscito, l’idea più modesta è stata di custodirla. Oggi invece, sento che devo lasciare andare: capisco che quel patrimonio non è mai stato per me, che il suo senso è nel passato, nelle passioni, nelle curiosità e nelle casualità che hanno guidato le scelte di mio padre, e io nel presente posso sì accoglierne spunti, coincidenze con i miei interessi e le mie ricerche, farmi segnare, arricchire e trasformare da quel passato, ma, pur contro ogni mio istinto di conservazione, non lo posso portare nel mio futuro. Oggi mi chiedo che farò di tutti quei libri, se troverò un luogo capace di accoglierli, o se rimarranno dove sono e malgrado tutto mi accompagneranno, o se qualche circostanza mi obbligherà a disfarmene.

So che questo lasciare andare è una parte fondamentale del lutto, ma anche che, attraverso di esso, quello che siamo chiamat3 a fare, un po’ alla volta, è il lutto della nostra stessa perdita. La comprensione intima che non siamo etern3 e che moriremo: così la morte dell’altro è la nostra morte, nel senso che la morte e la vita sono un movimento unico, che abbraccia ogni creatura nello stesso processo inestricabile. E quando penso a coloro che, magari nella vecchiaia, se ne vanno pront3, immagino che, a poco a poco, abbiano compiuto questo processo di affidamento.

Personalmente mi consola l’idea di morire dentro una vita più grande che continua, sapere che siamo materia che fa parte di un organismo vitale più esteso e, come mentre noi viviamo le nostre cellule muoiono e sono sostituite, così quando noi finiamo, restiamo in circolo, nel grande sistema pulsante dell’organismo Gaia: così la chiamava Lovelock… mentre Bateson per descriverlo usava il concetto junghiano di “Creatura”. Il Mondo è una creatura e noi ne siamo le cellule…

Mi piace pensare che se la morte e il morire fossero parte della nostra consapevolezza, come esercizio quotidiano al lasciare andare e all’umiltà, forse questo sdrammatizzerebbe il potere ipnotico della morte e la sua fascinazione, che rischia di distrarci dalla costruzione di valore nel quotidiano e da cui cerchiamo costantemente di distogliere lo sguardo. E forse anche la vita ci farebbe molta meno paura.

Federico Ferrari, psicologo psicoterapeuta, terapeuta di coppia e familiare

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