La morte, si dice, è certa e, quindi, inevitabile. «Democratica». Colpisce tutti e a qualsiasi età. Ma si aggiunge anche che, a volte, colpisce in modo indiscriminato, in maniera non propriamente giusta e, in questi casi, la si guarda e la si attende con paura ed angoscia.
Si fa fatica a comprenderla ed accettarla soprattutto quando si è colpiti da mali incurabili e ad essere malati terminali sono i bambini, i più indifesi, i più deboli. Si è, allora, .impotenti, si rimane senza parole e di silenzio si avvolgono i propri piccoli cari quasi che esso sia l’unico vero antidoto, l’unico modo possibile per renderla meno ingiusta e dolorosa.
Ma fino a che punto adolescenti e bambini non debbano sapere e comprendere? Fino a che punto essi non sanno, non comprendono, non si pongono domande anche su ciò che accadrà dopo?
La Vidas, l’associazione attualmente presieduta da Ferruccio De Bortoli e creata, nel 1982, da Giovanna Cavazzoni per assistere gratuitamente a casa propria i malati terminali, fra le tante attività assistenziali e culturali, ha raccolto le testimonianze degli adolescenti su questo spinoso e difficile tema: i pensieri e le speranze dell’attesa, le cautele, il disagio e il silenzio di chi (genitori, parenti, coetanei) è vicino, le domande e il significato del dopo.
I giovanissimi, come si è potuto appurare dagli scritti e dalle videoregistrazioni che gli psicologi e gli assistenti sociali di Vidas hanno raccolto nelle proprie strutture e nelle scuole, sanno più di quello che gli adulti possano pensare, avvertono il loro disagio, misurano i loro gesti e le loro parole, pretendono di essere ascoltati e di intraprendere un dialogo sereno, senza tabù, esprimersi sul senso della vita e della morte.
Da questa raccolta emergono pensieri, ricordi, riflessioni, tematiche su cui, da sempre, l’uomo si è confrontato, ha costruito miti, credi, religioni, filosofie. Si passa dalla definizione stessa della vita e della morte per passare alle tante domande sul loro significato, alle speranze, alla rimozione.
La morte per questi ragazzi fa parte del «ciclo della vita». Essi hanno la consapevolezza che è solo «una fase» di esso, «il termine di un percorso», «la fine di un’esperienza di gioie e di sofferenze», «un passaggio curioso perché nessuno sa cosa accade dopo» e che «non si è mai pronti per smettere di vivere». Si pongono l’eterno interrogativo «perché ci hanno creato per farci stare bene o male?» e perché il male, l’odio, le guerre, l’accumulo di ricchezze, la ricorso al successo se poi morire?
Colpiti da una grave malattia o da un lutto, sono più realisti degli adulti, sanno coltivare la speranza che con la morte si ha la consapevolezza «di smettere di soffrire e passare da uno stato di sofferenza ad uno di serenità e di pace» e che la si deve attendere «non pensandoci», «sapendo che c’è qualcuno che ti vuole bene», «vivendo come se non si dovesse mai morire», «accontentandosi delle piccole gioie», e anche la rimozione del lutto, la scomparsa di una persona cara, per essi, diventa più facile attraverso il ricordo di gesti affettuosi, di parole sincere, di giochi e giorni lieti, dell’immagine di un volto, di due occhi dolci, di uno sguardo.
Queste testimonianze, schiette e genuine dimostrano che parlare con i giovani di vita e di morte, affrontare con essi questi spigolosi problemi senza remore e tabù, non può che fare bene a tutti e aiuta a vivere e morire con minore angoscia.