L’ineluttabile certezza della morte ha spinto l’umanità, sin dai tempi più remoti, a costruire percorsi di senso, riti, pratiche, credenze e spazi votati ad un aldiquà terreno che potesse gettare un ponte tra coloro che rimangono e chi invece ha terminato i suoi passi su questa terra. La morte si pone quindi come elemento basale per l’interpretazione e l’elaborazione teleologica dell’esistenza di ogni uomo di tutte le culture in ogni luogo del mondo; da evento intimo, personale, la morte si trasforma, nel corso di una strutturazione sociale sempre più articolata, in un fenomeno collettivo in cui sono coinvolti non solo i familiari del defunto ma, con diverse mansioni, anche altre figure via via sempre più peculiari. Tra di esse, grande considerazione è riservata alla figura del necroforo per ciò che rappresenta in termini storici, sociologici, antropologici nella comprensione delle varie culture. Nel tempo, e presso i vari popoli, il necroforo sotto diverse vesti più o meno ufficiali ha sempre occupato un ruolo ben distinto nelle pratiche funebri e di sepoltura dei morti anche se, per molti secoli, il contatto con il corpo del defunto era esclusivamente riservato ai suoi più stretti familiari. Il termine necroforo dal verbo greco νεκρόφόρος composto di necro (νεκρό / morto) e foro (φόρος / portatore) indica esplicitamente la persona deputata al trasporto dei morti, alla loro sepoltura. Tra i diversi significati metaforici con cui viene usato questo nome, il più noto è certamente quello utilizzato in zoologia per denominare alcuni coleotteri (necrophorus vespilloides) che si nutrono dei cadaveri di piccoli animali e che depongono le uova nelle loro carcasse. Per comprendere la storia del necroforo e la sua evoluzione nel corso dei secoli, partiamo da uno sguardo molto sintetico sulle pratiche mortuarie nelle varie organizzazioni sociali.
Nelle culture primitive, e in numerose culture extraeuropee soprattutto africane, il corpo del defunto veniva abbandonato nelle foreste oppure offerto in pasto alle belve perché non contagiasse i vivi con i suoi spiriti maligni; anche i suoi familiari erano costretti a vivere segregati per un determinato periodo perché ritenuti impuri in quanto erano venuti a contatto con la morte. Col tempo questa consuetudine estrema venne abbandonata perché si pensò che, al contrario, fosse necessario proteggere lo spirito del defunto, così si cominciò a coprire le salme con cumuli di terra, rami e tronchi. La credenza che lo spirito potesse sopravvivere alla morte del corpo originò una serie di riti, di cerimonie e di pratiche che caratterizzarono in modo particolare il culto dei morti in uno specifico contesto culturale.
Nell’antico Egitto il culto dei morti aveva una importanza centrale se non superiore alla stessa vita terrena; di ciò ne è prova la maestosa architettura funeraria (tombe e piramidi), gli opulenti e preziosi corredi funebri, le cerimonie e i rituali tramandati attraverso il libro dei morti. Le piramidi erano considerate le dimore eterne del corpo perciò in esse doveva esserci tutto l’occorrente (cibo, vestiti, cosmetici, suppellettili, etc.) per la sopravvivenza del morto nella tomba. Con l’affermarsi e sotto l’influsso della civiltà Greca alla credenza della sopravvivenza del corpo nella tomba si sostituì l’idea di un particolare regno dei morti dove tutti i morti vivevano separati dai vivi (il regno dell’Ade). Per i Greci entrare in contatto con i morti era considerato atto impuro e pericoloso, le tombe erano ritenute sacre ed inviolabili e solo i familiari potevano curarsi del defunto e della sua sepoltura. Sul luogo dove era stato inumato il corpo veniva eretta una lapide di pietra, chiamata stele, sulla cui facciata era scolpito (o anche dipinto) il volto del defunto ed inciso il suo nome. Sulle tombe si consumavano offerte e sacrifici che placavano lo spirito del morto e ne soddisfacevano i desideri. Nei riti persiani compare per la prima volta una figura che potrebbe essere assimilata al necroforo: dopo la morte, il corpo del defunto viene disteso in un luogo specifico della casa e due portatori (khāndiya) lo preparano per il trasporto funebre. Vestiti di bianco, i portatori recitano le preghiere, trasportano la salma e la adagiano sopra un letto di pietra all’aria aperta dove gli avvoltoi ne avrebbero divorato le membra. Anche nell’antica Roma, come già nel regno persiano, alcuni uomini si occupavano della cura del corpo del defunto e delle pratiche funebri: essi erano chiamati vespillones (vespillone è ancora in uso nel dialetto romanesco col significato di becchino) ed erano impegnati specificatamente nel trasporto e nella sepoltura dei corpi di persone che appartenevano ad una bassa condizione sociale la cui famiglia, essendo appunto molto povera, non poteva sostenere gli oneri relativi alla sepoltura e al trasporto funebre.
Diamo uno sguardo più attento alla storia delle pratiche funebri nell’antica Roma. In un’opera monumentale di Giulio Ferrario (28 volumi datati 1830-38) “Il costume antico e moderno, ovvero storia del governo, della milizia, della religione, delle arti, scienze ed usanze di tutti i popoli antichi e moderni provata coi monumenti dell’antichità e rappresentata con analoghi disegni dal dott. Giulio Ferrario” nella parte dedicata ai Funerali comuni viene descritta minuziosamente la pratica mortuaria che riportiamo di seguito: “Appena che un romano era spirato, si chiudevano tutte le finestre; il più vicino parente abbracciando l’estinto ed avvicinando la sua bocca a quella di lui, ne raccoglieva l’estremo sospiro, indi gli chiudeva le labbra e gli occhi per aprirglieli dappoi sul rogo, mentre alcune altre persone od amiche o parenti chiamavano per nome il defunto ad alta voce. Il cadavere era lavato con acqua calda e vestito cogli abiti ordinari veniva posto sopra di un letto e co’ piedi rivolti alla porta, i lati della quale erano coperti di rami di pino. (…) Finalmente il cadavere era trasportato sul Monte Esquilino sopra di una barella detta dai Latini vespillo. Gli antichi romani avevano il costume di seppellire i cadaveri, e rare volte gli abbruciavano. (…) Sembra che il nome del becchino o beccamorti sia stato trasportato dai Romani a significare la barella su cui egli trasportava i cadaveri, giacchè il becchino era da essi appellato vespillo, onis. Nella sezione dedicata al Funerale de’ ricchi leggiamo: Il cadavere di un ricco era consegnato ai libitinarii, che lo lavavano, lo ungevano, lo imbalsamavano, e gli mettevano in bocca un obolo, col quale pagasse Caronte per tragittare il fiume Stige; e questa cerimonia era in uso anche presso i plebei. Lo mettevano poscia sopra un magnifico letto ornato di ghirlande, e coperto di bianchissimi lini e di strati di porpora. (…) Intorno al feretro stavano alcune donne appellate preficae, che piangevano ed imitavano i gemiti di una persona desolata. Allorquando il cadavere era portato al rogo, lo seguivano molte persone co’ distintivi delle dignità che il defunto aveva occupate, e colle immagini degli avi precedute da quelle dell’estinto. (…) Giunto il feretro al rogo, avanzavasi il più prossimo parente, riapriva gli occhi al defunto, gli dava l’ultimo bacio, e lo involgeva in una tela d’amianto; tutti gli altri gittavano sulla pira olio, profumi ed aromi. Finalmente la più cara persona del morto volgendo la faccia indietro dava fuoco al rogo. Cessata la fiammar, si dava l’estremo addio al morto, (…) indi i parenti (…) raccoglievano le ossa le lavavano col vino e con latte, le asciugavano, le riponevano nell’urna, sulla quale versavano copiose lacrime, che venivano raccolte in vasi detti lacrimatorii. (…) Passati nove giorni, si sotterrava l’urna cineraria, sulla quale per tre volte il sacerdote gettava la terra; al dissopra si metteva l’epitaffio. Il luogo per la sepoltura solitamente era collocato fuori dalle mura della città: le persone che appartenevano ad una classe povera inumavano i propri defunti seppellendoli in grandi necropoli, mentre per i ricchi la prassi seguita era quella della cremazione i cui resti, raccolti nelle urne cinerarie, venivano deposti in tombe monumentali ubicate nei pressi delle porte della città. Possiamo quindi affermare che fu proprio nell’antica Roma che la figura del necroforo ebbe una sua precisa definizione all’interno delle pratiche funerarie attraverso il ruolo dei vespillones e dei libitinarii; essi continuarono il proprio compito per tutto il tempo dell’Impero ma con la sua disgregazione lentamente scomparvero, fino a farne perdere completamente le tracce.
A Roma, i primi cristiani, non potevano professare liberamente la loro fede ma soprattutto, non volevano bruciare le spoglie dei loro morti perché credevano nella resurrezione del corpo. Vennero scavate nel sottosuolo dell’Urbe le catacombe, una serie di cunicoli e grotte sotterranee dove seppellirono i corpi e dove si ritrovarono per pregare e professare la loro religione. Con l’editto di Costantino del 313, l’imperatore diede libertà di culto ai cristiani; la chiesa, nei secoli successivi, con l’acquisizione e il consolidamento di un potere sempre maggiore, si organizzò nella strutturazione di una liturgia mortuale ad hoc, riservata ai propri defunti. Si trattava di una serie azioni che avevano tempi e spazi ben definiti: prima di tutto vi era la benedizione della salma e, a seguire, la traslazione della bara dalla casa del morto alla chiesa, dove veniva celebrata la messa funebre; al termine della liturgia si svolgeva il corteo per l’accompagnamento al cimitero, la sepoltura (ad opera del becchino), ed infine i suffragi e le preghiere per l’anima del defunto.
L’ordinamento dei funerali religiosi spettava esclusivamente al parroco a cui la legge canonica riconosceva anche un onorario in denaro, solo per i poveri il parroco era obbligato ad accollarsi le spese delle esequie. Philippe Ariés in Storia della morte in Occidente (1975) fa notare che dopo l’eclissi delle pompe funebri del periodo imperiale, nel Medioevo l’esperienza della morte ritornò a rappresentare un evento pienamente accettato e socialmente condiviso dall’intera comunità che intorno al corpo del defunto si adoperava in una serie di ritualità ben definite e molto partecipate. Al capezzale del moribondo si riunivano parenti ed amici che per tutto il tempo della sua agonia cantavano e pregavano, recitando i salmi. Sopraggiunta la morte, si procedeva con la sepoltura del corpo che spettava esclusivamente ai familiari del deceduto; della figura del necroforo di età romana infatti, si erano perse completamente le tracce. Il corpo del morto veniva denudato, lavato con acqua calda e profumato con erbe aromatiche. Anche nel Medioevo la differenza tra il funerale del povero e quella del ricco era molto accentuata. Come nelle esequie dei ricchi Romani, anche in quelle dei potenti del Medioevo, il corteo funebre era accompagnato da una banda di suonatori e da uno stuolo di prefiche che piangevano a comando e mediante ricompensa. Le donne imparentate col morto si laceravano i vestiti, si strappavano i capelli e si contorcevano in convulsioni quasi isteriche. Se il defunto era un rinomato uomo pubblico, sfilava una processione di cavalli bardati e sbandieratori; dopo il corteo funebre, nella casa del defunto, si consumava in suo onore un ricco pranzo a cui partecipavano tutti i familiari. Il rito cristiano proibì la cremazione dei corpi, i defunti venivano tumulati all’interno della città in prossimità delle reliquie o delle tombe dei santi (ad Sanctos) in uno spazio consacrato che comprendeva la chiesa o i monasteri; la sepoltura dei martiri all’interno del centro abitato avrebbe offerto protezione alla città e ai suoi abitanti. Sulle reliquie dei santi sorsero basiliche ed edifici sacri ed intorno ad esse si costruirono anche i primi cimiteri che finirono per essere inglobati al centro del tessuto urbano. Nel 1215 Innocenzio III consacrò i cimiteri come luogo sacro e li incorporò alla chiesa. Il termine cimitero deriva dal latino coemeterium che significa dormitorio; durante tutto il medioevo i morti vennero chiamati dormienti e nel cimitero i dormienti (morti) dormono in attesa di poter risorgere. Il becchino solitamente era una persona povera o un mendicante e i servizi funebri gli venivano offerti per circostanza, ossia scavare la terra e seppellire i morti; la gestione del cimitero era, per competenza, affidata esclusivamente al prete. Tra il 1347 e il 1352 una violenta e ferale epidemia di peste colpì tutto il continente europeo decimandone la popolazione; questo flagello obbligò alcune persone ad occuparsi, dapprima estemporaneamente e poi in modo specifico, del trasporto dei morti e della loro inumazione o cremazione. Fu in questo periodo che la figura del necroforo, come conseguenza del suo costante contatto con i defunti, cominciò gradualmente a strutturarsi come un vero e proprio mestiere ed anche la sua diffusione, dopo l’oblio del post-impero, divenne sempre più ampia. Tuttavia, insieme alla sua affermazione cominciò a mutare drasticamente anche il modo in cui esso veniva percepito a livello sociale richiamando su di sè una forte carica di superstizione e stigma; a ragione del frequente contatto con i cadaveri, si ritenne che la persona deputata a questo compito portasse sfortuna. A testimonianza di queste credenze nefaste vi è la variegata declinazione, nel corso dei secoli, del termine necroforo nei diversi dialetti regionali della penisola che, con attributi più o meno coloriti indica questo mestiere con parole spesso usate come un epiteto genericamente ingiurioso: schiattamuorto, cacciamuorte, pizzegamorto, campusanteri, beccaio, affossatore, seppellitore, fossore, etc. L’appellativo che però ebbe più popolarità (tanto da resistere ancora oggi nel linguaggio comune) fu quello di becchino o beccamorto. Questo termine pare derivi dalla pratica del medico condotto che, per constatare l’avvenuto decesso della persona, era solito infliggere dolore pungendo in modo deciso il corpo del deceduto; se il malcapitato fosse stato ancora vivo non avrebbe resistito al dolore e si sarebbe mosso oppure avrebbe urlato; beccare il morto significava quindi scovare chi fingeva di essere defunto e chi invece era morto davvero. Un’altra mansione del becchino, in questo periodo, era quella di vagare per le campagne ed i boschi nell’intento di recuperare i corpi delle persone decedute per poter dare loro una sepoltura; ciò veniva fatto essenzialmente per questioni legate alla salute pubblica ma non si può escludere che venisse fatto anche per compassione nei confronti di persone morte in estrema solitudine. Durante la pestilenza del Trecento i medici della peste erano soliti indossare una lunga veste nera cerata ed una maschera rigida con un grosso naso a punta per proteggersi dal contagio del morbo; anche i becchini si dotarono di una divisa che consisteva in una mantella lunga e nera con un cappuccio che terminava a punta, denominata becca. Quando si bruciavano i corpi di persone morte a causa di una epidemia i becchini mettevano sul volto una maschera contenente spugne imbevute d’aceto ed essenze profumate per impedire l’inalazione di cattivi effluvi.
Nel 1500, la presenza dei cimiteri all’interno del tessuto urbano, in particolar modo nelle chiese, fece scaturire importanti problemi di ordine igienico; soprattutto nei periodi caldi, nelle città si diffondeva un forte un odore nauseabondo ed un’aria malsana; spesso accadeva che i necrofori, nelle operazioni di sepoltura, rimanessero essi stessi vittime delle esalazioni letali. Si cominciò a pensare, quindi, di spostare il luogo della sepoltura dai centri urbani alle periferie. A Firenze, durante il Rinascimento, quando un cittadino moriva era la Signoria dei Medici a sostenere ed organizzare la cerimonia funebre. La salma, vestita di bianco, era esposta al pubblico ed era illuminata da due o quattro ceri. Durante la cerimonia funebre i piangenti, vestiti di nero, accompagnavano la bara ed infine, i becchini (dietro compenso di otto soldi) seppellivano il corpo presso l’ossario comune, se si trattava di un cittadino semplice, o presso la chiesa, se di un personaggio autorevole. Nella già citata “Storia della morte in Occidente”, Philippe Ariés fa notare che proprio a partire dalla fine del 1500, con l’allontanamento dei luoghi di sepoltura dai centri urbani, prese avvio un processo, che perdura ancora nei nostri giorni, di graduale cancellazione della morte; essa lentamente cominciò a connotarsi come un evento tabù da rimuovere e da tenere ai margini della vita sociale.
Durante il XVII secolo, il necroforo (o becchino, come solitamente veniva chiamato) era una occupazione riservata a persone emarginate, che vivevano condizioni di assoluta povertà o che si trovavano in situazioni di grave disagio sociale. Durante la terribile epidemia di peste del 1600 che investì il settentrione italiano, la grande mole di appestati e di cadaveri sparsi per le città, venivano condotti presso i lazzaretti o sepolti da alcune persone chiamate monatti; essi erano, in genere, detenuti, condannati a morte, che venivano arruolati come becchini e per farsi riconoscere dovevano portare dei segni distintivi visibili anche da lontano. Alessandro Manzoni ne parla ampiamente nei Promessi Sposi, nella descrizione della peste di Milano del 1630.
Nello stesso periodo, dall’altra parte del mondo, in Giappone, cominciò a diffondersi il fenomeno dei burakumin. Erano gli abitanti dei villaggi che vivevano ai margini della società feudale e per la loro miseria venivano chiamati a svolgere i mestieri più odiati come appunto, quello del becchino o del macellaio. Secondo lo scintoismo, la religione ufficiale giapponese, tutto ciò che aveva a che fare con la morte era impuro, di conseguenza i burakumin erano considerati degli emarginati, degli infami e il loro stigma era trasmesso, per familiarità, anche ai loro figli. Questa discriminazione ha attraversato i secoli ed è giunta fino ai nostri giorni, infatti chi vive nelle zone abitate in passato dai burakumin spesso si vede recapitare volantini con la scritta “Sei un becchino, un macellaio: non puoi spostare nessuno”. A Napoli, sempre nel Seicento, era in voga un particolare tipo di sepoltura riservata esclusivamente alle persone aristocratiche ed agli ecclesiastici chiamata scolatura. Di questa pratica si occupava lo schiattamuorto (becchino) che aveva il compito di sistemare i cadaveri in posizione verticale, di praticare dei fori lungo tutto il corpo e di raccogliere in un vaso i liquidi cadaverici, quelli appunto della scolatura; questo processo serviva a disseccare il corpo e a renderlo incorruttibile, come una sorta di mummificazione. Gli schiattamuorti, persone in genere molto povere, erano destinate irrimediabilmente ad ammalarsi perché a causa di queste procedure, lavoravano in condizioni igieniche disumane e malsane.
Una ricerca di Carnevale (Diego Carnevale, Storia di un mestiere qualunque. L’arte dei beccamorti a Napoli in età moderna, QUADERNI STORICI 141 / a. XLVII, n. 3, dicembre 2012) mette in risalto che le arti dei beccamorti a Napoli, diversamente dallo stigma che culturalmente era associato a questo lavoro, godevano di una posizione sociale riconosciuta e i titolari delle diverse imprese erano ben inseriti nel tessuto sociale della città. Questo riconoscimento può essere dedotto anche dalle diverse richieste di nuovi artigiani che desideravano far parte della paranza e dal fatto che l’avvocato, per difendere il rifiuto di associare nuove imprese, sottolinea il basso livello sociale del mestiere di origine dei richiedenti e, d’altra parte, la delicatezza e difficoltà del lavoro del beccamorto.
La letteratura napoletana dei secoli XVII e XVIII contiene numerosi riferimenti alla bassa condizione degli «schiattamuòrte», spesso irrisi e rappresentati in costante rapporto con il cadavere. Ma la famiglia delle professioni svalutate e schernite era ampia: quando l’avvocato Jovino fu incaricato di opporsi alla proposta di Troise e Fierro, egli iniziò la sua allegazione riferendosi al mestiere d’origine dei due proponenti: «credo che peggior condizione di un Servidore di livrea, e di quella de’ Bastasi non possa giammai rinvenirsi». Insistendo sul decoro necessario a svolgere le processioni funebri, l’avvocato tentava di screditare gli avversari sulla base del diffuso pregiudizio nei confronti della categoria cui appartenevano. (D. Carnevale, op.cit., p. 840)
L’interesse per la gestione dei funerali e dei relativi guadagni è sottolineata anche dai periodici conflitti che insorgevano tra le autorità ecclesiastiche, le paranze dei necrofori e le corporazioni per definire le rispettive competenze risolte a favore a volte degli uni a volte degli altri.
Verso la fine del secolo, per rimediare ai pericolosi fenomeni di insalubrità dei cimiteri urbani e dei tantissimi corpi sepolti nelle chiese, si lavorò intorno ad una legislazione che spostasse la sepoltura dei morti al margine delle periferie delle città e nel 1804, col decreto napoleonico di Saint-Cloud, la questione dei cimiteri venne definitamente risolta. Essi vennero posti al di fuori delle cinte murarie dei centri abitati, in luoghi aperti e soleggiati; i corpi dei defunti non dovevano più essere gettati nelle fosse comuni ma dovevano essere inumati in singole fosse separate, poste l’una accanto all’altra; nessuna fossa poteva essere riaperta prima di cinque anni per permettere al corpo una completa decomposizione. Le tombe, tranne quelle dei personaggi illustri, dovevano essere tutte uguali, per forma e grandezza, sia per una motivazione ideologica-politica che per necessità igenico-sanitarie. Le pratiche del decesso erano assicurate dal medico comunale, invece, in caso di morte improvvisa, era il parroco a dover fornire per iscritto il nome, cognome ed età anagrafica del defunto. I resti dei corpi sepolti in città vennero trasferiti nei cimiteri extraurbani innescando una graduale separazione tra il sacro e il profano, tra lo spazio dei vivi e quello dei morti.
L’editto napoleonico di Saint-Cloud fu esteso al Regno d’Italia nel 1806 (Della polizia medica) e la sua applicazione scatenò una serie di accesi dibattiti in relazione alla inumazione dei morti. La sepoltura individuale, diede l’avvio anche ad un nuova relazione affettiva con le tombe dei defunti che da quel momento cominciarono ad essere visitate più frequentemente dai propri cari. A tal proposito ricordiamo le forti suggestioni poetiche del Foscolo che, nel suo poema Dei Sepolcri (1806), utilizza per rimarcare l’assoluto valore consolatorio della tomba; è proprio intorno ad essa che parenti ed amici instaurano col caro defunto una illusoria ma acquietante “corrispondenza di amorosi sensi”.
A partire dal secondo decennio dell’Ottocento, dopo l’editto napoleonico, all’interno del cimitero comunale venne introdotta una nuova figura professionale: essa riguardava l’operatore cimiteriale che, attraverso un incarico ufficiale ed un relativo salario, si occupava della inumazione ed esumazione dei corpi, del trasporto della salma in chiesa e al cimitero; l’operatore, tuttavia, non era obbligato a funzioni di custodia del camposanto. Le cerimonie funebri erano particolarmente drammatiche; le donne piangevano un pianto rituale che accompagnava il defunto dalla sistemazione nella bara fino alla sepoltura, il feretro era portato a spalla da sei familiari o amici del defunto e durante la processione funebre, al passaggio della salma, tutti si fermavano, si scoprivano il capo e si facevano il segno della croce; seppellire i morti era un dovere cristiano contemplato nelle “Sette opere di misericordia”.
Nel napoletano lo schiattamuorto, aveva il compito di posare il corpo nella bara, di sistemare le ossa dei cadaveri, di trasportare la salma al cimitero ed infine di darle sepoltura nella fossa. La sua figura era ambivalente: da un lato era temuta perché richiamava la morte, dall’altro era rispettata perché avrebbe garantito la sepoltura ai propri cari nel giorno della loro dipartita. A Napoli, si organizzavano funerali molto pomposi con grandi cortei, carrozze trainate da cavalli, ricchi addobbi floreali; lo schiattamuorto al suo passaggio tra la gente suscitava sempre gesti scaramantici perché comunque era considerato uno iettatore, un portatore di sfortuna, tanto che, nella smorfia napoletana, avere in sogno il becchino è sempre un sintomo di incombenti sventure. Durante tutto l’Ottocento le mansioni dei necrofori e le pratiche mortuarie, fortemente connotate dai precetti della religione cattolica, si fissarono in compiti e usanze che perdurarono, quasi inalterate, fino ad alcuni decenni addietro.
Verso la fine del XX secolo, grazie alle nuove conquiste tecnologiche e scientifiche, nell’intento più o meno dichiarato di separazione della morte dalla prassi quotidiana, la prossimità al fine vita viene sempre più affidata agli ambienti medicalizzati. La morte, che coinvolge e sconvolge la vita delle persone, viene debitamente allontanata per abitare spazi opportunamente circoscritti (come ospedali, sale del commiato e cimiteri) in cui essa, col suo enorme potenziale d’angoscia, non possa intaccare e disturbare la quiete dei vivi. Ne consegue che, tutto l’apparato sociale e professionale che ruota intorno all’evento morte, si ritrovi ammantato da una sorta di tabù per cui meno si è in contatto con esso, più serena scorre l’esistenza. Il moribondo è relegato al margine e i rituali del lutto tendono sempre più a scomparire nella nostra contemporaneità; ai familiari del defunto viene sottratto il periodo del lutto, la solidarietà del gruppo sociale; l’attraversamento del lutto, con le sue relative implicazioni e declinazioni personali, familiari e sociali, è ormai una pratica desueta e quasi del tutto estinta. Il funerale è limitato alla funzione religiosa in chiesa, il corteo funebre nel quartiere è scarsamente partecipato, se non totalmente abolito, e tutto ciò che in passato aveva un forte valore simbolico-rituale (come paramenti ed addobbi) è stato abbandonato. Geoffrey Gorer nel suo articolo La Pornografia della morte (1955) a proposito del lutto scrive: Si piange soli, in privato, di nascosto, come se si trattasse di una sorta di masturbazione. Negli ultimi anni è ritornata in auge anche la cremazione, antica pratica molto usata durante l’impero romano ma condannata per secoli dalla chiesa cattolica, e si è posta tra due questioni fondamentali: da un lato, la carenza degli spazi cimiteriali e dall’altro, il sempre maggiore affrancamento dalla pratica religiosa della morte. Sempre Gorer continuando a parlare della morte, aggiunge: Mentre la morte naturale è sempre più soffocata dal senso del pudore, la morte violenta svolge un ruolo sempre più importante tra le fantasie offerte dai mass media… …dobbiamo restituire alla morte – la morte naturale – le sue esibizioni e la sua visibilità, accogliere di nuovo il lutto e il cordoglio. Con la morte non ci si sporca più le mani, si limita al minimo la sua “presenza” tra i vivi, giusto il tempo del cerimoniale, magari anche accompagnato da qualche post o da una foto su Instagram; essa, inoltre, quando incombe nelle tragedie degli altri, attraverso un asettico like ci aiuta a tenerla opportunamente lontana e a farci sentire, in una mendace contrapposizione, ancora più vivi. Questo breve excursus sulla morte nella società del terzo millennio, ci obbliga a compiere una ulteriore analisi su come le agenzie funebri ed i necrofori siano stati costretti nel giro di qualche decennio a ridefinire la loro funzione a favore delle nuove esigenze (sociali e professionali) delle pratiche funerarie.
Il necroforo da un campo d’azione marginale si è ritrovato al centro del rituale, occupando ruoli finora ricoperti esclusivamente dai familiari o da altri operatori specifici. Le sue mansioni sono state riscritte a favore di competenze peculiari nell’ambito della ricomposizione della salma, della tanatoestetica, dell’allestimento della camera mortuaria oltre che di ogni genere di necessità tipografica (manifesti funebri, biglietti di ringraziamento, etc.) ed amministrativa. L’adempimento di queste mansioni è preceduto da una adeguata formazione che nel settore delle attività funerarie è obbligatoria per esercitare la professione. L’agenzia funebre dovrà occuparsi delle pratiche amministrative relative al decesso, della fornitura di casse mortuarie e degli articoli funebri inerenti il funerale, del trasporto e del recupero della salma, del cadavere, delle ceneri e delle ossa umane, può inoltre attivare e gestire anche una struttura per il commiato. Di grande importanza è anche l’interazione dell’operatore funebre con i familiari o con le persone che vivono il lutto; occorre sapere come relazionarsi, quali strategie psicologiche adottare nel rispetto delle varie religioni, spiritualità o semplici superstizioni. Tutti gli operatori che agiscono all’interno dei cimiteri, delle strutture per il commiato e presso le agenzie funebri devono essere in possesso della qualifica di necroforo. L’agenzia deve disporre di almeno quattro necrofori (addetti al trasporto della bara durante il funerale) e di un responsabile; deve inoltre avere una sede commerciale idonea, un’auto funebre, soggetta a controllo annuale da parte dell’ASL, ed una autorimessa. Se ci soffermiamo ad analizzare tutte queste direttive possiamo a ragione ritenere che il necroforo e le agenzie funebri, così come si presentano nella nostra contemporaneità, non sono altro che il risultato di un lenta trasformazione delle relazioni familiari e sociali; la morte è divenuta un evento strutturato e normato, gli operatori funebri si sono sostituiti alle antiche prassi con una azione professionale in grado di offrire al momento funebre tutte le necessità e le attenzioni riservate ad un evento così delicato ed importante. La professionalizzazione degli operatori funebri e la loro crescita in ambito occupazionale sta gradualmente esorcizzando anche il carico di superstizione e di ignoranza che da sempre ha avvolto la figura del necroforo. Una simpatica e ben riuscita docufiction di Pippo Mezzapesa, “Sogno di una morte di mezza estate” (2008) riporta al cinema l’attenzione sulla figura del necroforo raccontando la storia di Pinuccio Lovero, il quale, grazie al suo amorevole ed apprezzato impegno come custode cimiteriale, riesce perfino a mutare la triste nomea del necroforo: la gente comincia a credere che Pinuccio porti bene, nei suoi cinque mesi di lavoro, infatti, nessuna persona del paese è deceduta.
Un altro film molto interessante sulle modalità di esercizio della professione del necroforo è “Departures”, film giapponese del 2009 il cui titolo originale è “Persona che accompagna alla partenza”. La pellicola racconta le pratiche di un noukansh (maestro di deposizione della bara) in tre momenti particolari nella complessa ed affascinante arte funebre giapponese. Il primo momento riguarda la pulizia del corpo del defunto con acqua calda e alcol, la seconda la cura della salma con la vestizione e il trucco del viso, la terza infine, la chiusura della bara e l’accompagnamento al rito della cremazione. Al termine della cremazione i parenti raccolgono i resti del proprio caro per posizionarli nell’urna che, una volta riempita viene avvolta in un panno bianco e portata a casa o al cimitero.
Sempre dal Giappone è arrivata in Europa anche un’altra pratica che è quella della diamantificazione ossia la trasformazione delle ceneri del defunto in diamante. Una nuova opzione di sepoltura (in voga in Svizzera ma non ancora permessa in Italia) è rappresentata dalla sepoltura silvestre; in un bosco destinato esclusivamente a questo scopo vengono inumati i corpi racchiusi in bare biodegradabili, senza porre all’esterno alcun tipo di lapide marmorea. Esistono già agenzie funebri specializzate che pianificano con largo anticipo il punto esatto del bosco in cui avverrà la sepoltura scelta dal cliente.
Oltre ai servizi rivolti agli esseri umani, negli ultimi anni si sta diffondendo notevolmente anche la richiesta di servizi funebri per gli animali; le agenzie che stanno accogliendo queste richieste sono sempre più numerose. Esse si occupano del ritiro dell’animale defunto, del trasporto al crematorio, del disbrigo delle pratiche burocratiche presso l’Asl, dell’organizzazione di un momento di commiato prima della cremazione ed infine della sepoltura nei cimiteri dedicati esclusivamente agli animali. Il necroforo del terzo millennio, sia in qualità di operatore cimiteriale che in quella di operatore presso le agenzie funebri, oltre a portare nella sua professione un’esperienza millenaria che da sempre lo ha legato al momento più delicato della vita degli uomini, oggi si ritrova ad affrontare nuove sfide ed ulteriori ridefinizioni delle proprie competenze per accogliere al meglio, e con adeguata preparazione, le richieste sempre più peculiari delle persone che gli affidano l’organizzazione della cerimonia funebre nelle molteplici esigenze della società odierna.