“Oh Signore, dai a ciascuno la propria morte, ma una morte che sia davvero una morte…”. Questa era la struggente invocazione di Rainer Maria Rilke, in uno dei suoi sonetti più celebrati e più rivelatori, insieme, di una visione delle malattie della modernità e della speranza di rinvenire comunque, in essa, qualcosa che sia antidoto al disfacimento. Una supplica che per noi oggi ha il sapore come di un sogno antico: chi di noi può pensare davvero di andare incontro a una morte che sia “davvero” una morte, e cioè a un momento di congedo che sia una ricapitolazione di senso, un meditato distacco dagli affetti, una delega di eredità di ciò che in una vita abbiamo, eventualmente, costruito? Oggi le nostre vite sembrano, per lo più, composizioni casuali di disgregati frammenti, e le prefigurazioni della morte non possono che rifletterne, come in uno specchio, il disordine e la vanità, il silenzio e il vuoto. Il timore di ciascuno è, per questo, credo, di andare incontro a un precipitare buio dentro la morte, nella privazione di ogni coscienza, in balìa di decisioni altrui, che ci potrebbero far trascorrere mesi o anni della nostra esistenza biologica in sofferenze non lenibili, o in stati prolungati di incoscienza o di demenza. Ed è perciò che accade di sentire sempre più spesso persone che auspicano, per sé e per i propri cari, una morte “rapida e improvvisa”, come se soltanto un trapasso di cui non ci si rende nemmeno conto possa essere “davvero una morte”. Credo che il dibattito intorno al testamento biologico, che, se non erro, dovrebbe essere in discussione alle Camere proprio in questi giorni (l’articolo è datato 2006) abbia come sua radice profonda un’esigenza che andrebbe presa in seria considerazione e salvaguardata il più possibile, cioè quella di tentare di dare di nuovo un senso al momento finale della propria vita, affidato non soltanto all’artificio della tecnica, capace di prolungare l’esistenza biologica al di là di ogni umana sopportazione, o al di là di ogni ragionevole parvenza di esistenza umana, ma anche – come accadeva un tempo, nello spegnimento dei vecchi quando arrivava il momento della “sazietà” dei giorni – al desiderio, se lo si può chiamare così, di separarsi finalmente da una vita che non si può più chiamare tale, in virtù di una sofferenza che cancella ogni sensazione, ogni affetto, ogni pensiero, o di un azzeramento totale di ogni funzione umana. Come ha detto Ignazio Marino, un medico di cui più volte abbiamo avuto modo, credo, di saggiare la delicatezza intelligente nei confronti dei pazienti e la ragionevolezza nell’approccio ai temi sollevati dalla medicina in relazione all’etica comune, e oggi Presidente della Commissione Sanità al Senato, “come medico, so bene quale dramma possa comportare l’assenza di un testamento biologico di un paziente per i familiari, ma anche per i medici curanti, che oggi in Italia rischiano l’accusa di omicidio volontario se decidono di sospendere le terapie ad un malato il cui corpo è stato ormai abbandonato dalla vita”. Non si tratta, è ovvio, di voler cancellare dall’orizzonte dell’umano la sofferenza, sia fisica che mentale, o la debolezza del corpo e della psiche, che non solo fanno parte della condizione di noi creature, ma che sono la pasta in cui, dolorosamente ma inevitabilmente, lievita la nostra statura umana. Si tratta proprio del contrario. Non lasciare il patimento dei corpi e dei cuori privato di un orizzonte di senso, non permettere che l’esperienza dello spegnimento di quella straordinaria e irripetibile avventura che è ogni esistenza umana rimanga nuda di uno sguardo compassionevole che l’accompagni. Certo, non tutto è semplice, e comporta responsabilità gravi tracciare delle linee di comportamento buone per ogni situazione specifica, perché nulla è lineare nelle nostre intricate biografie. A volte, nella morte come nella vita, è inevitabile assumersi il rischio di decisioni dure. Per questo è così arduo – ma non impossibile – tracciare delle leggi che possano rispondere agli infiniti “gesti” che ogni morte mette in scena. Per questo andrebbe, in questa come in altre delicate materie, elaborato qualcosa che assomigli a un “diritto mite” (Gustavo Zagrebelsky), un diritto che tuteli la dignità di ciascun essere, senza nulla imporre e senza nulla impedire. Parlare di “libertà”, nella scelta di morire, non dovrebbe sembrare a nessuno una difesa arrogante del disprezzo della vita indebolita. Ma un atto d’amore per un’esistenza che ci è stata data, affinché, anche nel momento estremo, almeno in un barlume di coscienza, rimaniamo “immagine e somiglianza” di chi ce l’ha donata.
di Gabriella Caramore
(Gabriella Caramore è curatrice e conduttrice di programmi radiofonici, tra cui, dal 1993, “Uomini e profeti”, programma di cultura religiosa, in onda su Radio Tre.)
(Come contributo al sempre attuale dibattito su etica, eutanasia, testamento biologico, il sito www.il dialogo .org ha pubblicato ,in data 3 ottobre 2006(con un titolo redazionale), un testo inedito scritto da Gabriella Caramore, che il quotidiano dei vescovi Avvenire avrebbe dovuto pubblicare domenica 9 luglio 2006 nello spazio riservato alla rubrica “Sul confine”, che la Caramore curava dal settembre 2005. L’articolo, che contiene un approccio aperto e problematico alla questione del testamento biologico, è stato bloccato prima che venisse mandato in stampa, per esplicita volontà del direttore Dino Boffo. In seguito a questa censura, la Caramore ha deciso di terminare la sua collaborazione con Avvenire. )