Marco Brazzoduro,  presidente dell’Associazione Cittadini e Minoranze, che da diversi anni si occupa di assistenza alla popolazione rom e sinti in emergenza abitativa nella Capitale, ha lanciato da tempo l’allarme per quanto sta avvenendo all’interno della maggior parte dei campi rom: molte persone, in concomitanza con l’evolversi della pandemia, stanno rimanendo senza cibo né acqua e in condizioni igieniche precarie. I campi in molti casi stanno divenendo luoghi sovraffollati in cui non viene attualmente portato alcun intervento di igienizzazione e in cui nuclei numerosi vivono in piccoli container o in roulotte. Si tratta di persone per lo più disinformate rispetto ai rischi del contagio, che non hanno mezzi né strumenti per procurarsi i dispositivi di protezione individuale. E che, pertanto, sono molto esposti in prima persona e rischiano di diventare potenziali fonti di contagio a loro volta. Diviene chiaro come un solo contagio in luoghi di questo tipo possa diventare una catastrofe. Molti di coloro che prima gestivano lavori saltuari oggi sono impossibilitati a proseguirli a causa delle restrizioni, pertanto sono tornati a vivere di elemosina, con ben pochi proventi, visto il drastico calo delle persone che circolano per la città. Inoltre, uomini, donne e bambini sono esposti allo stigma sociale e non vengono ben visti, quando non addirittura cacciati, dai supermercati e dai pochi esercizi ancora aperti. Potrebbero usufruire dei buoni spesa, in quanto la sindaca Raggi ha dato disposizione che vengano elargiti anche ai campi rom, ma le procedure per poterne usufruire sono complicate e non sono disponibili operatori sociali che svolgano la funzione di mediazione e di distribuzione dell’informazione in questi luoghi che, sempre più, si stanno abbandonando alla povertà e al degrado. Non è una guerra quella che stiamo vivendo ma sono certa che, di qualsiasi cosa si tratti, sta lasciando molte persone indietro, sta creando ingiustizie e discriminazioni che non dovrebbero esistere in un Paese civile che ha conosciuto la fame e la miseria; celebrare la liberazione non significa commemorare una data. Deve significare tenere viva dentro di sé l’empatica disperazione del ricordo.

Monica Betti

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