Da più di cinque anni, dall’istante in cui suo genero le ha ucciso la figlia, sono lei e suo marito che si occupano dei bambini: era una precisa volontà della figlia…Lei e suo marito hanno tirato fuori tutte le loro risorse per fare da genitori ai nipoti, lui ha chiesto il prepensionamento, lei è tornata ai pannolini e ai compiti: «Tempo per piangere non ne abbiamo avuto. Dobbiamo dare il meglio, per i bambini. Anche se ogni volta che viviamo un momento bello, il pensiero è sempre che non è giusto, doveva esserci la loro mamma, qui con loro, a provare quella gioia» (Nonna Adele, in De Carli 2021).

Gli orfani di femminicidio, dopo la morte della madre, hanno la necessità di essere inseriti in una nuova famiglia e, nella maggior parte dei casi, vengono affidati ai nonni materni o ai parenti più prossimi.

La possibilità dell’instaurarsi di una relazione significativa tra il minorenne e i nuovi caregivers rappresenta uno dei più importanti fattori di protezione per evitare seri rischi a lungo termine sulla salute di questi bambini (Baldry, Cinquegrana, 2015).

Tuttavia, anche i familiari della vittima sono stati toccati dal lutto di una persona molto cara e potrebbero trovarsi in difficoltà nell’occuparsi di chi è rimasto orfano.

I nonni sono invecchiati tantissimo da quando papà ti ha uccisa, poveretti, la loro figlia più giovane, uccisa da quel bravo ragazzo. Loro hanno sempre meno voglia di fare le cose, io invece a volte vorrei fare una vita normale e andare in giro, viaggiare, giocare nel parco, stare con le amiche e ridere fino a quando ci viene il mal di pancia (Alessia, in Baldry 2018).

Il bambino ha perso la mamma, i nonni hanno perso una figlia, gli zii una sorella.

Sentimenti di rabbia, dolore, impotenza potrebbero ostacolare i familiari nel rappresentare un luogo sicuro in cui i bambini possano sperimentare fiducia e sicurezza.

Per questo motivo, le famiglie affidatarie, in particolare quando sono parenti della donna uccisa, vanno sostenute in maniera importante perché, vittime di un trauma, si trovano a dover fronteggiare e gestire anche quello dell’orfano.

I primi tempi sono stati drammatici. Stella ha sofferto di atti di autolesionismo: «Tratteneva pipì e cacca per farsi del male, per punirsi. Si sentiva in colpa. Diceva che la mamma l’aveva abbandonata…». A casa si sedeva spesso in un angolino, si abbracciava le gambe, lasciando scivolare la testa e iniziava a parlare ad alta voce. Intuendo che la bambina avesse bisogno di quello spazio intimo per dialogare con la mamma, la nonna le costruì una sorta di casetta, con i peluche, alcuni ricordi, le foto e i cuscini soffici (nonna Sarah, in De Carli 2021).

Questi nuclei familiari necessitano di ricevere un adeguato sostegno giuridico ed economico e dovrebbero essere affiancati fin da subito da uno psicologo, che li guidi nell’elaborazione del lutto, da un educatore, che li accompagni nel nuovo ruolo di caregivers, oltre che di essere inseriti in una rete sociale che li sostenga (Baldry, Cinquegrana, 2015).

Sono proprio le famiglie stesse, come quelle di cui si sta prendendo cura il progetto Airone (www.percorsiconibambini.it/airone), che si occupa di aiutare gli orfani di femminicidio, a dirci di sentire la necessità di luoghi e spazi in cui poter condividere i propri vissuti con altre persone che hanno subito la stessa perdita, di confrontarsi sulle informazioni che hanno dato ai bambini sulla morte della mamma e di parlare di questa nuova vita nella quale la tragedia li ha catapultati.

Non si può quindi sostenere un orfano di femminicidio senza prendere in carico, in maniera specifica, anche la sua nuova famiglia.

Manuela Stucchi, pedagogista

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