Giulia, 2 anni, è stata trovata in pigiama, in un angolo, come congelata, mentre la madre giaceva nella stanza accanto.
Matteo è tornato a casa dall’oratorio e ha trovato la sua mamma in salotto, il viso blu, il corpo immobile, dall’altra stanza proveniva il pianto della sorellina, sola, attaccata alle sbarre del lettino.
Sara era a scuola ed è stata chiamata in presidenza, “vieni, devi andare”, la zia l’aspettava nell’ufficio della Dirigente, il viso contratto, lo sguardo basso, lei aveva già capito cosa era successo.
Yuri sentiva la sua mamma urlare, ma non riusciva ad uscire dalla sua camera, stringeva il suo orsetto di peluche sperando che lui la smettesse di gridare, sentiva oggetti rompersi e poi, solo il rumore del silenzio.
Maria invece è rimasta orfana che era già maggiorenne, della morte della madre ha saputo in treno, sentendo un notiziario, sepolta la sua mamma, ha dovuto ripulire la casa dal sangue con le sue stesse mani.
Gli orfani e le orfane di femminicidio sono vittime invisibili di un tragico evento, sul quale i media accendono i fari sui dettagli macabri della vicenda, il numero delle coltellate o sulle tracce di sangue lasciate dalla donna, e su dove sia e che fine farà l’omicida.
Le luci, invece, si spengono su chi resta, soprattutto su di loro, i figli di queste madri, persone che rimangono tragicamente orfane, perdendo la madre per mano del padre.
Un genitore uccide l’altro, rompendo così la sicurezza primaria del nucleo familiare come luogo di assoluta protezione.
«Con il femminicidio vengono meno tutti i parametri di normalità di perdita di un genitore, perdere la propria madre perché l’ha uccisa il proprio padre è il trauma nel trauma» (Baldry 2018, p. 44).
Questi bambini, in una volta sola, vanno incontro contemporaneamente a numerose perdite: il genitore ucciso, l’altro genitore che si suicida, viene detenuto o fugge, il distacco dalla propria casa e dai propri oggetti personali, che possono rimanere sotto sequestro, anche per mesi.
Martino non aveva nulla con sé, i giochi, i libri di scuola, i suoi vestiti erano rimasti in quella che era la sua casa, dove lui non è più rientrato per lungo tempo.
Della sua mamma nemmeno una foto, un vestito…come gli sarebbe piaciuto poter avere quel libro che gli leggeva sempre la sera.
Alcuni di loro hanno assistito all’omicidio, altri lo hanno saputo dai parenti, altri dagli assistenti sociali, qualcuno, come Maria, addirittura dalla stampa.
Ad alcune persone la verità non è mai stata detta.
Molti sono minori di età, alcuni già maggiorenni, adulti o giovani adulti, risiedono sia a nord che a sud, senza distinzione; in Italia si stima che, ad oggi, siano circa duemila.
Vivono tutti lo stesso immenso dolore e condividono la drammatica condizione di essere figli sia della vittima che del carnefice, devono convivere con il fardello di essere “figli di un assassino”, stigma che rischierà di accompagnarli per tutta la vita.
Manuela Stucchi, pedagogista