Per rispondere a questo importante quesito bisogna innanzitutto specificare che una malattia pediatrica s’inserisce in un’età della vita che per definizione è legata alla spensieratezza, all’ingenuità, al gioco. Agli adulti è richiesto il gravoso compito di conciliare, quindi, la naturale e serena crescita dei bambini/e con la malattia e di garantire, allo stesso tempo, la loro cura e protezione. Nel momento della diagnosi di una malattia succede che i genitori diventino particolarmente apprensivi, limitando le attività del bambino/a e attuando comportamenti iperprotettivi e ansiogeni. I familiari ed eventuali caregiver hanno, quindi, bisogno di essere aiutati a riconoscere i propri sentimenti, soprattutto le proprie paure, affinché il bambino/a possa continuare a vivere situazioni e relazioni preesistenti all’esordio della malattia.  Prima dei due anni di vita, il bambino non elabora cognitivamente la propria malattia e la vive attraverso le emozioni delle persone che lo circondano ed è attraverso l’interazione con le persone significative che inizia a formarsi quella fiducia di base da cui prende origine il suo senso di identità. È bene, perciò, dare continuità, nei limiti del possibile, all’esplorazione dell’ambiente e all’esercizio delle capacità acquisite o in via di acquisizione. Crescendo,la malattia è vissuta più coscientemente perché il bambino ha una maggior consapevolezza del proprio corpo e delle parti che lo compongono, riesce a localizzare i propri disturbi e a comprendere le spiegazioni che gli vengono date sulla necessità delle visite, sulla loro durata e sulla loro utilità. Se il genitore spiega con chiarezza, egli riesce a comprendere e ad accettare. Fino all’età di otto anni, il bambino non ha ancora ben chiari il concetto di salute e di malattia e non è in grado di capire il rapporto causa-effetto tra cause scatenanti la malattia e la malattia stessa. C’è il timore che il cambiamento sia stabile o che siano state le sue disubbidienze a scatenare il male. Infatti, il bambino, proprio perché non ha idea di quali possano essere le vere cause delle malattie, può essere indotto a pensare che siano una conseguenza dei suoi comportamenti. Questa convinzione è avvallata anche da ciò che dice l’adulto, prima con funzione preventiva e poi colpevolizzante. Questo lo porta a percepire gli strumenti della cura come veri e propri strumenti di tortura. I bambini malati devono riuscire a integrare un’immagine del corpo alterata dalla malattia: un compito emotivo e cognitivo, in cui è altrettanto fondamentale che i segni della malattia non diventino i simboli principali di questa identità. Dopo gli otto anni, il bambino tenderà a spiegare la malattia come conseguenza dei germi presenti nel corpo e nell’ambiente che la fanno apparire ai suoi occhi come un avvenimento intriso di magia. Intorno ai dodici anni, inizierà a considerare e a riflettere sulle varie concause che hanno determinato la malattia.

È necessario, quindi, giungere ad un sapere condiviso di come il “sentirsi malato” viene vissuto dai bambini/e per riuscire ad accogliere i loro sentimenti e a dare adeguato sostegno al loro sviluppo cognitivo e affettivo.

Giada Zucchini, psicologa

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