E poi c’è la fede. A cui siamo divenuti stranieri, intangibili. Una dimensione fondante della storia umana, dall’inizio degli umani tempi, che è andata perduta, è divenuta oggetto vuoto, struttura incomprensibile. Benché sia per molti versi alla base della nostra cultura, la società attuale richiede che non si possiedano più nemmeno gli elementi minimi per un orientamento, per riconoscere i segni, la profondità dei simboli che pure, volenti o nolenti, fanno parte di noi. Troppa roba, troppa concentrazione, troppo silenzio, troppa verità. La fede appassionata e divorante di uno starec Zosima, della pratica mistica dell’esicasmo, brilla nei versi di Cristina Campo, autrice fuori da ogni possibile coro. La luce e il mistero. Per me è stata una scoperta recente e folgorante. Le sue opere sono pubblicate da Adelphi (la Campo scrive di tutto, dalla critica letteraria ai tappeti, volando leggera su un’erudizione immensa), ma in rete si trova molto materiale, specie nel ricchissimo sito a lei dedicato. Nata un paio di chilometri a est del punto da cui scrivo, fu in relazione con i massimi intellettuali del secolo e ora riposa meno di un chilometro a ovest di qui. Sono andata a trovarla, con mia moglie, nello scorso gennaio. Nel cimitero della Certosa, deserto, cercando la piccola cappella di mattoni abbiamo incrociato più volte un’altra coppia e alla fine, pur senza rivolgerci la parola ci siamo trovati là, cercavamo la stessa tomba. Nascosta, piccola, dimessa. Viva.
Nobilissimi ierei
Nobilissimi ierei,
grazie per il silenzio,
l’astensione, la santa
gnosi della distanza,
il digiuno degli occhi, il veto dei veli,
la nera cordicella che annoda ai cieli
con centocinquanta volte sette nodi di seta
ogni tremito del polso,
l’augusto canone dell’amore incommosso,
la danza divina del riserbo:
incendio imperiale che accende
come in Teofano il Greco e in Andrea Diacono,
di mille Tabor l’oro delle vostre cupole,
apre occhi del cuore negli azzurrissimi spalti,
riveste i torrioni di Sangue.
Che prossimità spegne
come pioggia di cenere
Monaci alle icone
Macario l’ipodiacono, trecce attorte sull’incolpevole nuca,
si rotola a piè delle icone come un cucciolo d’oro.
L’igùmeno Isacco, inflessibilmente orizzontale la barba,
depone a terra la vita dinanzi all’azzurra Madre.
Con tre piccoli, costernati segni di croce, Ireneo
bacia tremando tre luoghi della salvifica scena.
Ma il giovane Gregorio? Con mani che mai fu più pura
la vergine betulla, circonda come il volto più amato,
più inconsolabilmente amato la Divina Veronica;
e il lentissimo bacio a occhi chiusi, dopo il lunghissimo sguardo,
non è più bacio a un’icone non è più bacio a un’icone.
Cristina Campo