Ci sono parole che non ammettono commento. Magari uno potrebbe vedere una porta laterale, un percorso non diretto, che permetta di dire e non dire. È quello che normalmente faccio introducendo le poesie della rubrica per lasciare spazio ai versi e al lettore. In questo caso no. Avrei voluto recitarvela questa poesia, provando a dar voce al suo fuoco, ma non sono riuscito a trovare una soluzione tecnica soddisfacente. La lascio dunque alle vostre mani questa così terrestre, così umana fiamma (che, naturalmente, nella versione originale inglese brucia ancora più forte).
Non andartene docile in quella buona notte
Non andartene docile in quella buona notte,
i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
perché dalle loro parole non diramarono fulmini
non se ne vanno docili in quella buona notte.
I probi, con l’ultima onda, gridando quanto splendide
e loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
s’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
troppo tardi imparando d’averne afflitto il cammino,
non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
s’infuriano, s’infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
benedicimi, ora, con le tue lacrime feroci, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.
[da Poesie, Einaudi, traduzione di Ariodante Marianni]