Uno dei meriti residui di una istituzione come il premio Nobel è di ricordarci, di quando in quando, che la poesia esiste. Che qualcuno ne fa conto, che qualcuno lascia un segno. È un eco lontana: solo un’eventuale e ben pensato passaggio televisivo apre uno spiraglio più concreto alle vendite e, sperabilmente, alla lettura. Esempi recenti e lampanti (e isolati) di questi miracolosi casi di benedizione televisiva in Italia sono Alda Merini e Wislawa Szymborska. Chi ha seguito il corso di questa benedizione [a volte anche la televisione fa cose buone, a volte anche la cattiva televisione] non credo se ne sia pentito: si tratta di nutrimento vero. Della Szymborska consiglio caldamente anche le mirabili, amorevoli, ironiche prose di Letture facoltative.

Qui, nel nostro piccolo, diamo un assaggio dell’opera del Premio Nobel 2020 per la letteratura Louise Glück. Opera che mi era sconosciuta ma che ho trovato molto bella e forte nella piccola antologia presentata (inclusiva delle versioni originali) sul sito Poetarum Silva. Si tratta della poesia che dà il titolo alla sua raccolta più nota, l’unica tradotta in italiano ad oggi, L’iris selvatico.

E, guarda caso, parla di cose dell’altro mondo.

 

 

L‘iris selvatico

Alla fine del mio soffrire

c’era una porta.

 

Sentimi bene: ciò che chiami morte

lo ricordo.

 

Sopra, rumori, rami di pino smossi.

Poi niente. Il sole debole

tremolava sulla superficie secca.

 

È terribile sopravvivere

come coscienza

sepolta sulla terra scura.

 

Poi finì: ciò che temi, essere

un’anima e non poter

parlare, finì a un tratto, la terra rigida

un poco curvandosi. E quel che mi parve

uccelli sfreccianti in cespugli bassi.

 

Tu che non ricordi

passaggio dall’altro mondo

ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò

che ritorna dall’oblio ritorna

per trovare una voce:

 

dal centro della mia vita venne

una grande fontana, ombre blu

profondo su acqua di mare azzurra.

 

Louise Glück

Trad. Massimo Bacigalupo [L’iris selvatico, Giano editore, 2003]