Questa è una piccola storia. Quando ero bambino ascoltavo molta più musica di adesso. Mio fratello, di sette anni più grande di me, era adolescente e ne ascoltava tantissima, specialmente italiana. Io sono venuto su a pane e cantautori e la maggior parte delle canzoni che conosco a memoria le ho imparate negli anni ’70. Molte di queste non sono di certo fra le più popolari. Ad esempio, una che periodicamente riemerge da sé da quei tempi lontani, che mi capita di canticchiare nella mente è questo bellissimo Notturno (1975) di Angelo Branduardi. Quell’atmosfera, i versi con cui comincia la canzone hanno lasciato un segno profondo in me bambino e la loro eco di forza e di mistero è altrettanto viva oggi. È stato davvero poco tempo fa, circa cinquant’anni dopo che ho ascoltato per l’ultima volta quella canzone fuori dalla mia testa, che, sfogliando il volume che raccoglie tutte le poesie di Quasimodo, ho trovato da dove venivano quelle parole. Sono una piccola poesia, forse un frammento, di Alcmane, poeta greco che visse in Asia Minore nel VII secolo avanti Cristo. Duemilacinquecento anni e ci parla ancora, poche semplici parole ancora ci sanno toccare. La fratellanza umana è anche nel tempo. Non dobbiamo dimenticarlo. Mai. La civiltà è un’eredità profonda millenni. Abbiamone cura, è il nostro più grande tesoro, l’unica salvezza. [Se a una prima lettura non vi convince, ascoltate la canzone. Ai tempi di Alcmane le poesie erano canzoni].
Dormono le cime dei monti
Dormono le cime dei monti
e le vallate intorno,
i declivi e i burroni;
dormono i rettili, quanti nella specie
la nera terra alleva,
le fiere di selva, le varie forme di api,
i mostri nel fondo del cupo mare;
dormono le generazioni
degli uccelli dalle lunghe ali.
Il cerilo
O fanciulle che il dolce suono seguite con soave
voce, non più le membra ho docili. Fossi il cerilo
che con le alcioni passa sereno sul fiore dell’onda,
uccello di primavera, colore delle conchiglie!
[Alcmane, trad. Salvatore Quasimodo, da S. Quasimodo,
Tutte le poesie, Oscar Mondadori]