Chissà, forse un senso interiore, non riconosciuto, ci avverte. Dopotutto le rose non si lasciano sfuggire nessun accenno di tepore, nessuna estate indiana. Così, passato appena il solstizio mi pare già di cogliere il crescere della luce e così mi dicono altri attorno a me. Qualcuno ci fece assetati di fotoni, cani da tartufo del chiarore di cielo. Per questo, credo, rumino da giorni queste poesie di Mario Luzi così piene di fulgore, di estate non feroce, ma permeata di sole, forgiata dalla luce, che qui è tantissima e pure non fa male. E che seminano nel cuore di questo inverno invocazioni purissime, alte, più grandi della nostra capacità di comprendere. Balugina la possibilità di essere mezzo, di accedere alla felicità della cicala che trasmette qualcosa che la supera in ogni grado senza saperlo. Ma trasmette. Lo dona al mondo, all’Anima che sa.

Sole alto

perso nella sua forza,

sparito nella sua buia vampa

di fulgore e di potenza…

L’aquila forse: l’uomo

non può scrutarne il volto:

solo, esattissima, l’instanza

nel cielo mediodiurno,

l’a piombo sul forteto

e sulle stanghe del recinto,

sul pascolo, l’assito, il tetto

in paglia e laterizio

della capanna di fronte.

La sommità in cielo e qui del giorno…

L’essere sceso in sé

nelle sue dimore flagra.

Anima del mondo

insediata nell’acero e nell’orno,

non annientarci, preparaci

alla verità, sia chiara e ardente.

———————————————————————————————

Granisce nel suo apice oro-brace

lei maturità

di fruge allo zenith dell’anno;

                        flagra,

azzurro e i suoi barbagli,

luglio, la gremita pigna

a picco sulla voragine.

                       Siamo,

coro di cicale,

                       presi

noi pure in quell’ardore,

ci tiene

         la celestiale fabbrica

impaniati nel suo miele,

racchiusi nei suoi stampi.

                           Forse

nemmeno lo vorremmo, eppure

ci informa di sé, di sé ci brucia

estate la consustanziata carne,

ci mette nelle arterie luce,

ne espelle opacità,

tossici –

           o nuda

creatura che divampi

e canti il tuo plenario assenso

a non sai che – lo sa

però il tuo canto, lo reca in sé.

Mario Luzi

[da Poesie ultime e ritrovate, Garzanti, 2014. A cura di S.Verdino]