Per la serie tesori nascosti (ma mica poi tanto nascosti), inaugurata con Cose dell’altro mondo #23, oggi vi propongo due poesie di Silvia Secco. Se cercate in rete trovate tante cose sue (oltre ai suoi libri, qui il più recente) e vi basterà guardarvi intorno, oltre alle poche righe che seguono, per capire che Silvia Secco ha un dono grande. Punto. Che si declina, dono nel dono, anche nel suo dialetto, chiaro e potente.
Quello che tocca specialmente me è che spesso dalla sua poesia traspare l’odore buono dell’erba, la forza e il sentimento delle radici, della civiltà contadina che è, che ci piaccia o no, che ce lo ricordiamo o no, elemento fondante. Capitemi bene: nemmeno l’ombra di folclore. Capacità naturale di esprimere il valore luminoso di generazioni di uomini e donne che si sono consumati nella terra senza smettere di amarla, trasmettendo il bene attraverso le generazioni. Canto vero di gente vera. E gesti colmi di sacro: In origine si univano pane a neve…
In origine si univano pane a neve
nei pomeriggi, quando le madri
ne rubavano ai giardini, al margine
inviolato – più bianca – ci riempivano
i bicchieri. Poi sopra, poco zucchero
e un filo di vino nuovo compivano
il prodigio. Le chiamavano marène:
facevano cibo il cielo, il cielo
quando cadeva buono.
***
Le anziane madri – le mani sul ventre
che ha custodito – hanno nozione
del tempo. Ci cantano all’orecchio
che ne avremo, da morte, per riposare
la quiete concessa finalmente
la coerenza dell’ultima parola
fissata nell’eternità, quando saremo pietre
purissimi diamanti, e non avremo pietà
di nessuno. Allora, senza gli occhi, senza l’opinione
saremo trasparenti esseri di perfezione.
Sceglieranno per noi i fiori delle spose. Poi
dopo le cerimonie, ci dimenticheranno.
[Silvia Secco, da Amarene,
2018, Edizioni Folli, Bologna – Milano]