Mi pare che sovente si riduca la nostalgia al dolersi per l’impossibilità di avere indietro un tempo passato, le condizioni irripetibili di quando fummo bambini o ragazzi. O tempi mitici o reali in cui la vita si suppone fosse più vera o più giusta o i rapporti di forza più equi, le relazioni sociali più sane. Questo è tutto vero ma non è tutto. C’è un altro lato di questo sentimento. In ogni momento del tempo, in ogni luogo e segmento di società si sono generati modi di vedere il mondo, di interpretare la realtà, di relazionarsi col prossimo e con le cose che sono caratteristici. Questi sistemi di rapporti spiccioli, queste che potremmo definire culture lillipuziane, sono generate dalla modernità a un ritmo senza precedenti e allo stesso ritmo inghiottite dal tempo. Nostalgia è anche la profonda compassione per la scomparsa inevitabile e inesorabile, continua, di tutti quei modi di vivere, dei sentimenti che si sentivano e dei pensieri che si pensavano. Non perché fossero meglio di quelli di oggi ma perché erano. E sono andati e vanno perduti in ogni momento e in ogni luogo e non ci si può far nulla, ma per quanto minuti, erano parte della molteplice ricchezza e miseria dell’esperienza umana. E strugge dir loro addio, mentre il fiume li porta oltre il definitivo orizzonte.
Mito
Una stella attaccata al soffitto
di plastica delle suore
fluorescenti ma piano,
piano… docile astro
del pomeriggio acquistato
con l’ammoniaca
da uno che è morto,
uno di Gallarate,
l’uomo delle pulizie
che l’aveva appiccicata
lì. Una stella
da quaranta lire,
nel 1972.
Noi bambini la guardavamo
quella stella nel pomeriggio
invece di dormire
nell’androne la fissavamo
a lungo
sembrava
che non era più una
sembrava
che c’era l’asilo
pieno di pianeti
anche se i pianeti non sono stelle noi
sbagliavamo a parlare
e nessuno ci correggeva
le suore non ci sentivano
dormivano di là
[da Addio mio novecento, Einaudi, Torino, 2014]