Ogni anno, nel tardo autunno, in corrispondenza di giorni piovosi, compare sul muro accanto al cancello del palazzo in cui abito, una scarna popolazione di minuscole lumache, diciamo una ventina di esemplari, per quel che riesco a vedere. Più che chiocciole assomigliano a nautili, il guscio è molto appiattito e resta piuttosto verticale rispetto al punto d’appoggio. Sono assai piccole, il diametro del guscio è dell’ordine di un paio di millimetri. Hanno un aspetto primitivo, da fossili, da remotissima specie che ha dimenticato di estinguersi. Quest’anno presto attenzione alle due raffigurate nella foto che stanno a pochi centimetri l’una dall’altra fin da novembre. Per forza di cose passo loro davanti almeno due volte al giorno. Sarebbe naturale pensare “va bene, sono lì da settimane, saranno morte, saranno gusci vuoti”. Ma qui sta il mistero: no. Non sono stato mai in grado di vederle in movimento ma si muovono. Benché restino sempre entro un raggio di meno di dieci centimetri l’una dall’altra e non le abbia mai viste avvicinarsi a più di due-tre centimetri, dalla sera alla mattina, da un giorno all’altro la loro posizione relativa non è mai la stessa. C’è un incessante avvicinarsi e allontanarsi, un mutare di angolo, una danza perpetua e lentissima, indecifrabile. Perché lo fanno? Di che si nutrono su un muro bianco intonacato, perfettamente vuoto? Le loro compagne più prossime, altrettanto sole, stanno a diversi decimetri di distanza. Come sopravvivono alle notti di gelo?

Non so perché, ma mentre vengo abbagliato dalla meravigliosa felicità delle immagini delle poesie di Federico Garcia Lorca che sto rileggendo in questi giorni mi viene da pensare a loro. Loro che orbitano sognando una Venezia celeste, loro in volo su monti di luce e piaghe di gigli. Magari il loro tempo immobile è fatto di scintille. Magari tutto il mondo è fatto di scintille.

Le stelle

Le stelle
non hanno fidanzato.
Tanto belline,
le stelle!
Aspettano un rubacuori
che le porti
ad una sua ideale Venezia.
Tutte le notti s’affacciano
alle grate
– oh cielo di mille piani! –
e fanno segnali lirici
ai mari d’ombra
che le circondano.
Ma attente, ragazze,
perché quando morirò
vi rapirò una dietro l’altra
sul mio cavallo di nebbia.

Canzoncina del primo desiderio

Nella mattina verde,
volevo essere cuore.
Cuore.

E nella sera matura
volevo essere usignolo.
Usignolo.

(Cuore diventa color arancio.
Cuore,
diventa color d’amore).

Nella mattina viva,
volevo essere io.
Cuore.

E nella sera tramontata
volevo essere la mia voce.
Usignolo.

Cuore,
diventa color d’arancio!
Cuore,
diventa color d’amore!

A Mercedes nel suo volo

Una viola di luce ferma e gelata
già sei sopra le rocce dell’altura.
Una voce senza gola, voce scura
in tutto suona e mai è ascoltata.

Il tuo pensiero è neve scivolosa
nell’infinita gloria imbiancata
il tuo profilo ustione dolorosa;
il tuo cuore colomba scatenata.

Già canta per il cielo senza freni
la mattinale odorosa melodia,
monte di luce, piaga di crisantemi.

Che noi qui, notte o giorno sia
faremo, al crocevia dei patemi,
una ghirlanda di malinconia.

Federico Garcia Lorca

[da Poesie, Newton Compton, a cura di Claudio Rendina.

Per A Mercedes nel suo volo: traduzione libera di Michele Bellazzini.]

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