Il “Magazine Littéraire” francese dedica il suo numero di novembre a “Quello che la letteratura sa della morte”. Ho letto con interesse i vari articoli, ma sono rimasto deluso dal fatto che, tra tante cose che non sapevo, in fin dei conti mi ripetessero un concetto notissimo: che la letteratura si è sempre occupata, oltre che dell’amore, della morte. Gli articoli del periodico francese parlano della presenza della morte sia nella narrativa del secolo scorso, sia nella letteratura gotica pre-romantica, ma si sarebbe potuto discettare sulla morte di Ettore e sul lutto di Andromaca, o sulle sofferenze dei martiri in tanti testi medievali. Per non dire che la storia della filosofia inizia con l’esempio più consueto di premessa maggiore di un sillogismo: «Tutti gli uomini sono mortali».
IL PROBLEMA MI PARE piuttosto un altro, e forse dipende dal fatto che oggi si leggono meno libri: noi contemporanei siamo divenuti incapaci di venire a patti con la morte. Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull’inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal “Giovane provveduto” di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un’immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte – se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione».In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l’Esercizio della Buona Morte: «Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire… Quando le mie mani tremule e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore… Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall’orror della morte imminente … Quando le mie barra fredde e tremanti…. Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione e il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine… Quando la mia immaginazione, agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze… Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi… misericordioso Gesù, abbiate pietà di me».
PURO SADISMO, SI DIREBBE. Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. O meglio, ne vediamo continuamente, che schizzano brandelli di cervello sui finestrini dei taxi, saltano in aria, si sfracellano sui marciapiedi, cadono in fondo al mare coi piedi un cubo di cemento, lascian rotolare sul selciato la loro testa – ma non siamo noi o i nostri cari, sono gli attori. La morte è uno spettacolo, persino nei casi in cui i media ci raccontano della ragazza realmente stuprata o vittima del serial killer. Non vediamo il cadavere straziato, perché sarebbe un modo di ricordarci la morte. Ci fanno vedere gli amici piangenti che recano fiori sul luogo del delitto e, con un sadismo ben peggiore, suonano alla porta della mamma per chiederle «Cosa ha provato quando hanno ucciso sua figlia?». Non si mette in scena la morte bensì l’amicizia e il dolore materno, che ci toccano in modo meno violento.
Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita – e con cui l’uomo saggio viene a patti per tutta la vita.
di Umberto Eco