Il cammino verso la genitorialità non è sempre un percorso lineare. Più spesso di quanto si vorrebbe pensare, nella nostra società evoluta, si incontrano storie di madri e di padri che hanno vissuto l’esperienza di aver perso un figlio subito dopo la nascita o durante la gravidanza. Dalle loro narrazioni si evince che poco importa se la gestazione sia durata poche settimane, diversi mesi o se sia addirittura arrivata a compimento: il dolore che si prova lascia un vuoto incolmabile. La morte prenatale e perinatale genera famiglie interrotte: interrotte nel loro cammino verso la genitorialità e interrotte nella rappresentazione di un ruolo genitoriale che inizia con un bisogno reciproco di cura e di accadimento. I genitori interrotti sono quei genitori che entrano in ospedale con l’immagine mentale di un figlio da amare che, nella sua immaterialità, riempie già spazi e tempi e che, tornando a casa, trovano una culla eternamente vuota. Sono quei genitori che, spesso membri di una società educata e sufficientemente individualista, vengono interrotti una terza volta nel mancato riconoscimento del bisogno di piangere quel figlio che, nella mente dei genitori interrotti, non è un bambino generico, ma un bambino specifico che mai potrà essere sostituito con un altro. Sono i genitori che vengono distratti, ai quali si consiglia di pensare ad altro, ai quali, a volte, si dice persino che “è meglio così”, è meglio non averlo conosciuto quel bambino, piuttosto che averlo cresciuto, amato, per poi vederselo portare via. E in questo maldestro tentativo di consolazione, i genitori interrotti vedono come improprio il bisogno di piangere quel figlio perduto. L’interruzione della gravidanza e la morte perinatale coincidono con l’interruzione dei pensieri, dei progetti, dei desideri e, pertanto, di un attaccamento che non può, e non deve, facilmente essere reciso. I genitori che non riescono a riconoscere e a soddisfare il loro bisogno di piangere la perdita del proprio figlio, il che sancisce l’inizio dell’elaborazione del lutto, corrono il rischio di rimanere intrappolati nella rappresentazione di un compito genitoriale non assolto. I genitori che, invece, nel lungo termine, riescono ad affrontare il loro dolore, attraversandolo, concedendosi il diritto di sviscerarlo in profondità, raggiungono spesso dimensioni di conoscenza di sé e dell’altro che possono permettere di ricostruire la propria esistenza a partire proprio da ciò che inizialmente sembrava connotarsi come un punto di non ritorno, dandosi l’opportunità di divenire più sensibili e resilienti. Il genitore che perde un figlio ha bisogno di sentire che quel dolore non appartiene solo a sé stesso, ma all’umanità intera. Perché la morte di quel figlio sancisce, per sempre per i genitori interrotti, un prima e un dopo. E la delicatezza, la sensibilità, l’empatia, con la quale professionisti, congiunti e, in generale, la società, sapranno incontrare quei genitori renderà più denso di significati il prima e ugualmente doloroso, ma generativamente resiliente, il dopo. La morte prenatale e perinatale di un bambino non riguarda solo i suoi genitori. Spesso, dietro a quei genitori interrotti, vi sono anche fratelli e sorelle che vengono a loro volta interrotti nell’opportunità di creare legami che saranno indissolubili a prescindere dall’evoluzione della vita individuale. A seconda dell’età degli altri figli, spesso i genitori ed i congiunti si interrogano sull’opportunità di comunicare, e se sì con quali parole, che il loro fratellino o sorellina non arriverà. Spesso, soprattutto se l’interruzione di gravidanza è avvenuta nelle prime settimane, si opera la scelta di tenere gli altri figli all’oscuro dell’accaduto. Pur con il più profondo rispetto per le scelte individuali, credo che sia importante effettuare qualche considerazione in merito. La morte, soprattutto quella di un figlio, nella sua impalpabilità, lascia dietro di sé un silenzio che travalica il suono e fa più rumore di mille parole. L’assenza, se non se ne condivide adeguatamente il dolore, può diventare più materiale di quanto non si creda e costruire muri dietro ai quali piangere in solitudine, sempre più spesso e sempre più a lungo, aggiungendo così, ad un’assenza ignota, l’assenza o il cambiamento incomprensibile di chi invece, per i figli che restano, dovrebbe esserci. Ma non è solo questo. I bambini, anche precocemente, sviluppano idee e credenze rispetto alla morte; certo, soprattutto nei primi anni di vita, non cognitivamente e coscientemente strutturate ma, in ogni caso, è impossibile non riconoscere che i bambini comincino ad elaborare il concetto di morte, a livello senso-emotivo e percettivo, respirando, ascoltando, interiorizzando, le reazioni alla perdita che gli adulti significativi attorno a loro dimostrano. Non riconoscere questa competenza, che al contempo diviene anche un bisogno dei bambini, ovvero quello di comprendere il mondo attraverso l’interiorizzazione delle reazioni degli adulti per loro significativi, equivale a negare quel diritto al dolore in tutto e per tutto assimilabile al dolore che viene spesso negato ai genitori interrotti. Come l’idea di genitore si sviluppa precocemente nella mente e nell’anima della coppia genitoriale, così l’idea di essere fratello o sorella si sviluppa nell’immaginario dei bambini che, nel caso in cui questo percorso non dovesse giungere a compimento, hanno bisogno di adulti che riconoscano un dolore, spesso per loro senza nome, ma con un sapore e una consistenza già ben definiti. Con le parole, ma soprattutto con i gesti e con il modo di essere presenti più consono alla loro età, è importante spiegare che l’assenza è, per definizione, qualcosa che manca, e manca sempre, ma, se lo vogliamo, possiamo ricordare e, ricordando, abbracciare ed abbracciarci nel nostro dolore. La morte prenatale e perinatale di un figlio rischia di generare un vuoto difficilmente colmabile se i genitori non vengono adeguatamente accompagnati nell’elaborazione di un lutto che, diversamente da come l’immaginario comune può pensare, non comincia con il ritorno a casa, ma con la comunicazione stessa dell’avvenuta morte del bambino. La cessazione del battito sancisce l’avvio di un percorso che i genitori ancora non possono conoscere, ma che gli operatori ed i servizi che vi ruotano attorno devono saper prevedere, per permettere a quella coppia di recuperare e mantenere nel tempo una genitorialità dei quali saranno sempre a pieno diritto titolari. Quei genitori devono essere informati della possibilità, spesso dell’opportunità, di vedere il corpo del proprio bambino, di vegliarlo, di dargli un nome, di registrarlo all’anagrafe, di garantirgli il rito funebre più vicino alla loro cultura, di seppellirlo, di potergli portare un fiore ogniqualvolta ne sentiranno la necessità. A quei genitori va riconosciuta la possibilità di conservare una scatola dei ricordi dove, se lo vorranno, insieme ai figli che già hanno o che verranno, potranno conservare le tracce dell’esistenza di quel bambino. La scatola dei ricordi diventerà così il luogo-non luogo della gioia e del dolore, la lapide simbolica sulla quale piangere chi non c’è più, il terreno sul quale ricostruire la propria esistenza, dopo aver esorcizzato la paura di dimenticare. Per consentire a quei genitori di poter “fare i figli” anche dopo la morte della loro genitorialità e di poter “fare i genitori” anche dopo la morte dei loro figli.