di Mauro Serio

Ormai solo di fronte alla morte, egli [individuo contemporaneo] perde di vista il fatto che quest’ultima non costituisce mai, nel mondo umano, una conclusione definitiva, ma rappresenta, per le generazioni che seguono, l’apertura verso l’avvenire. (C. Lafontaine)

Non possiamo prescindere da come la società si comporta con il tema della morte e del morire per cercare di comprendere competenze, difficoltà e fatiche del lavoro del necroforo oggi. Céline Lafontaine (Il sogno dell’eternità, Edizioni Medusa, Milano, 2009) vede nella odierna società postmortale, come da lei definita, la conseguenza di due processi:

1) la scienza bio-medica ha fatto della “guerra alla morte” la sua ragione di esistere spingendosi sino alle radici dell’esistenza: la manipolazione del DNA, la rigenerazione dei tessuti, il trapianto di organi, la clonazione. Questa guerra non riguarda solo gli scienziati, i generali e strateghi di queste battaglie, ma riguarda noi tutti. Ognuno deve sentirsi coinvolto e tutti devono sentirsi responsabili: è diventata la guerra di tutta la società e ogni persona è come un soldato che deve combatterla ogni giorno agli ordini dei generali/scienziati. In questo senso l’autrice riprende Michael Foucault parlando di bio-potere. La caratteristica fondamentale della società postmortale è la ricerca di sicurezza in tutti gli ambiti e ognuno deve adattare i propri comportamenti per garantire la propria salute e sicurezza: dai comportamenti salutari all’uso dei detergenti per combattere i batteri, dall’alimentazione alla consultazione immediata di specialisti se si percepiscono disagi che potrebbero essere segnali di più gravi malfunzionamenti dell’organismo o della psiche. I pericoli vanno combattuti uno ad uno, la morte non esisterà più se saremo bravi a combatterne le cause: gli incidenti, i batteri, le stagioni, le malattie, la cattiva alimentazione, gli eccessi, le notti insonni, il troppo lavoro, il poco lavoro, l’inquinamento, l’ansia, la depressione, ecc. In questo senso la morte è stata segmentata, destrutturata, parcellizzata in miriadi di cause di decesso sino a farla scomparire dal nostro orizzonte come fenomeno in sé e per sé. Oggi non esiste il morire e basta, oggi si muore sempre per qualche causa. Chi non si adegua a combattere questa guerra viene stigmatizzato socialmente come un individuo che non cura la propria salute, il proprio corpo, non attiva i giusti comportamenti e precauzioni per difendersi dagli accidenti e dalle aggressioni. Solo una attenta pianificazione durante tutta la vita sarà adeguata al prolungamento indefinito della vita individuale che la scienza bio-medica ha posto – imposto – a tutta la società come obiettivo prioritario ed irrinunciabile. Tutti dobbiamo aspirare a diventare ‘grandi anziani’, sempre più anziani, possibilmente in piena salute. Chi non segue le indicazioni di comportamento della scienza bio-medica viene considerato persona non adattata a vivere in questa società, o quantomeno disadattata e/o strana.

2) Questa guerra totale e totalizzante alla morte è resa possibile quando ognuno diviene consapevole che ogni singola vita è il bene più prezioso e privato che esista e deve essere conservata il più a lungo possibile. Non esiste più uno scopo, un senso dell’essere al mondo se non quello fondamentale di sopravvivere al trascorrere inesorabile del tempo. Questa visione, così esasperata, può essere condivisa solo se la società pone l’individuo dotato di autonomia e libertà al di sopra ogni altro valore: prima viene l’individuo, sempre. La persona adattata che lavora e che consuma, che crea e che ha successo. Tutto dipende da noi stessi, il successo o il fallimento, la vita o la morte. Negli ultimi cinquant’anni questo processo di individualizzazione è stato portato alle sue estreme conseguenze da una strategia economica di trasformazione del cittadino in consumatore. Le persone sono state portate ad interessarsi solo della propria sorte dimentiche di chi le ha precedute in questo mondo, disinteressate alle generazioni che le seguiranno. Tutto il senso della vita va trovato nella propria esistenza e tutto si chiude in questa singola esistenza.

Questa grande battaglia per allungare la vita ha avuto notevoli successi che potrebbero rappresentare la più importante vittoria della società postmortale. Purtroppo, però, proprio queste vittorie per la longevità aprono una profonda e grave contraddizione: la società invecchia in modo esponenziale e, nel contempo, le persone anziane vengono considerate un peso gravoso, un costo difficilmente sopportabile, un rischio per la tenuta della società stessa. Gli anziani diventano più numerosi ma sono sempre meno apprezzati dalla nostra società pervasa dal mito dell’efficienza e della gioventù. Siamo arrivati al paradosso che prima della morte biologica gli anziani subiscono una morte sociale: esclusi e spesso emarginati e rinchiusi in strutture socio sanitarie. Oggi possiamo esultare per le vittorie ottenute a favore della longevità e, nello stesso tempo, dobbiamo temere gli innumerevoli problemi che questo numero sempre maggiore di persone anziane creano al nostro sistema di vita efficiente e produttivo, consumistico ed edonistico.

Vengono qua dentro, dove sono rinchiuse le memorie di intere famiglie, ma la memoria non sta qua sotto le mie scarpe rinforzate. La memoria è dentro di loro e viaggia coi loro racconti. Così voglio illudermi che non mi chiamino custode perché io badi a questi marmi, ma perché tenga dentro di me le storie di queste vite.(Marco Frosali, Il diario di un necroforo, http://www.ildiariodiunnecroforo.it/custode/ vis. 03/07/2018)

Lo sfilacciarsi dei legami comunitari, della solidarietà con chi vive vicino a noi, con chi è venuto prima di noi e con chi dovrà venire dopo di noi appare, quindi, un processo intimamente legato a questa guerra senza frontiere che un possente apparato bio-medico, affiancato dai sistemi di informazione ed economico-industriale, ha mosso contro uno degli eventi più naturali e inevitabili dell’esistenza: la morte. L’individuo oggi è solo di fronte alla vita e di fronte alla morte. Ogni persona si trova autonoma e libera di definire il senso della propria vita e quindi della propria morte; in definitiva si trova sola a dover affrontare questo difficile compito.

Inevitabilmente i riti collettivi vengono a mancare e ognuno si sente libero e in dovere di organizzare il proprio rito funebre in base alle convinzioni e al senso – o non senso – che ha voluto/saputo trovare nella propria vita.

«In tale contesto, il fatto di morire è tanto più tragico in quanto diventa antisociale. Questa individualizzazione del morire dà luogo soprattutto ad una riorganizzazione dei riti e delle cerimonie funebri» (C. Lafontaine, op. cit. p. 118).

L’ideale di un uomo libero, indipendente e sovrano, si staglia nell’orizzonte dei riti e delle variegate pratiche funerarie che si sviluppano in questo inizio di secolo. La scelta del rito, di come deve essere trattato il corpo, del tipo di cerimonia, di quale partecipazione, ormai è limitata solo dalla fantasia delle persone. Sempre più persone vogliono essere protagoniste, anche dopo la morte, delle scelte per celebrare il proprio addio alla vita, lasciando particolareggiate istruzioni su come i parenti debbano comportarsi e potendo anche stipulare specifiche polizze assicurative così da poter avere risorse adeguate per pagare i ‘servizi funebri’ richiesti secondo le proprie preferenze, senza pesare sui familiari e concordando direttamente con le imprese funebri le caratteristiche del proprio rito di addio. Oggi le imprese funebri ritengono importante essere qualificate come imprese di ‘servizi alla persona’. Dobbiamo prendere atto che il ‘servizio’ sta soppiantando il rito.

Questa scelta individuale presuppone una responsabilità personale che non sempre viene compresa da chi, solo, sceglie un rito avulso dalle pratiche comunitarie. Abbandonare i riti comunitari determina che tutte le responsabilità delle scelte che vengono fatte ricadono unicamente sulla persona che fa quelle scelte. A volte questo riserva sgradevoli sorprese in quanto le persone, oggi più che mai, hanno poca confidenza con la morte e poco comprendono il significato dei riti connessi. Hanno poca competenza e poche informazioni per poter fare delle scelte consapevoli. Per fare un esempio durante le interviste di ricerca uno psicoterapeuta ci ha raccontato di una signora che lo ha contattato in preda ad un grande sconforto. Alla morte del marito la signora decise di non celebrare alcun funerale, fece cremare il corpo e tenne le ceneri in casa. Dopo più di un anno, in preda ad una profonda tristezza e solitudine, ha immaginato che il marito si sentisse soffocato nel rimanere sempre rinchiuso in una urna e in casa, decise quindi di disperdere le ceneri in quel fiume sui cui argini il marito aveva passato tante ore per pescare o passeggiare al tramonto. Appena fatto si sentì serena, quasi come se avesse donato la libertà al marito oltre la morte. Dopo qualche tempo, però, fu assalita dal rimorso di aver compiuto quel gesto, che inizialmente le era parso estremamente amorevole. Tormentata dai sensi di colpa per aver “gettato via” il marito, il suo ricordo, l’amore provato per lui insieme alle sue ceneri. Man mano che il tempo passava il ricordo della sua voce, del suo viso, i ricordi dei tanti momenti passati assieme gli apparivano più sbiaditi e lontani, si sentiva responsabile di questo per aver compiuto quel gesto che oramai considerava scriteriato. In questa solitudine – con i legami comunitari sempre più deboli – alla povera signora non rimaneva che una scelta: rivolgersi ad uno psicoterapeuta o ritornare nell’alveo delle tradizioni comunitarie cercando un prete, ma per il rito funebre e le ceneri del marito ormai non c’era più nulla da fare.

Anche in questo caso la Lafontaine probabilmente direbbe che il bio-potere si sostituisce alle relazioni della comunità mettendo a disposizione degli individui, liberi ed autonomi, i professionisti del benessere psico-fisico. Un aiuto necessario a persone sempre più sole e spesso confuse dalla moltitudine delle scelte possibili che oggi ricadono interamente sotto la loro sola responsabilità.

Dei riti privati si è impossessato un grande mito del nostro tempo: il mercato. Visitare una delle molte fiere dedicate alle imprese funebri è come entrare in un modo fantastico dove inventiva, creatività e anche una certa dose di spudoratezza fanno ribollire un tessuto di piccoli imprenditori, che si offrono di contribuire a realizzare un rito privato, bello e indimenticabile, o sobrio ed ecologico, o originale e sorprendente. Dai cofani intagliati, colorati o di materiali innovativi e biodegradabili, ai memoriali digitali dove è possibile digitalizzare e conservare rappresentazioni della vita, fotografie, scritti, filmati del caro estinto, offrendo la possibilità a chiunque di visitare il sepolcro dematerializzato e lasciare anche i propri pensieri e commenti. Dagli arredi per le nuove case funerarie alle innovative cremazioni in acqua, una specie di grande lavatrice che riduce il corpo umano in qualche chilo di cenere bianchissima. Le riviste del settore offrono periodicamente i nuovi ritrovati come la possibilità di fondere la cenere del proprio caro in artistici gioielli o la possibilità di farsi seppellire tra le radici di un albero che vivrà traendo il nutrimento dal nostro corpo. Per avere una idea concreta di quanto diciamo vi invitiamo a visitare il sito di una delle fiere italiane più note: Tanatoexpo ( https://www.tanatoexpo.com )

Il lavoro del necroforo, già indubbiamente difficile, diviene complesso perché si troverà di fronte a persone in lutto che avranno un ventaglio di atteggiamenti rispetto alla morte e al defunto estremamente diversificati, assolutamente individuali, non più necessariamente incanalati e mediati dai riti condivisi della comunità. Nessun obbligo di pianti rituali, di cortei funebri, di veglie nelle case del defunto, tutti liberi ed autonomi nel decidere cosa si ritiene meglio per se stessi e per i propri cari. Ogni necroforo, aiutato dal proprio bagaglio di esperienze personali e lavorative, dovrà cercare di interpretare con precisione e nel minor tempo possibile l’atteggiamento delle persone in lutto per evitare di commettere errori, che in quelle circostanze possono essere vissuti dolorosamente male.

Potrà così capitare loro di arrivare a casa del defunto chiamati da un parente per prelevare il corpo da portare all’obitorio ed essere accolti con stupore dalla figlia “Voi chi siete? Andate via!” e accompagnati fuori di casa. A questo punto i nostri necrofori dovranno trovare un intermediario che possa parlare con loro e farsi ascoltare dalla figlia per riuscire a svolgere il proprio lavoro rispettando i sentimenti delle persone coinvolte.

Oppure potrà capitare di mettersi alla guida dell’auto funebre per portare il defunto al cimitero, sollecitati da un figlio che sembra avere molta fretta di chiudere una vicenda dolorosa e possibilmente accantonarla in breve tempo. Rispettosi del volere del figlio i nostri necrofori si adattano alle sue richieste, ma appena messa in moto l’auto sono bloccati da un altro figlio che si dice amareggiato e stupito della loro fretta. I necrofori si scusano dicendo che avevano seguito le indicazioni dell’altro figlio, ma gli viene ribattuto che questo è impossibile, semplicemente volevano finire in fretta la cerimonia per motivi loro o di servizio. Nulla per loro può essere dato per scontato ed ogni cerimonia può essere fonte di sorprese.

Come magistralmente descritto da Ernesto De Martino (Morte e pianto rituale nel mondo antico, Bollati Boringhieri Editore, Torino, prima edizione 1958) i riti sono stati costruiti nei secoli per aiutare i sopravvissuti a recuperare il legame con la vita, quella che De Martino chiama la presenza, continuare a sentirsi partecipi di una storia collettiva, potersi appoggiare e farsi sostenere dai legami comunitari, comprendere un senso della vita che va oltre l’esistenza individuale. Queste caratteristiche di supporto alle persone in lutto non possono esistere nei nuovi riti individuali: questi riti, o meglio ‘servizi’, sono completamente avulsi dalla storia della comunità di appartenenza.

Il sostegno del rito è magnificamente rappresentato nel film “Departures” di Yōjirō Takita. Anche i clienti più scettici di fronte alla grazia e solennità con cui viene accudito e vestito il corpo della persona deceduta si sentono coinvolti da questi gesti delicati e solenni di un’antica tradizione giapponese. Si sentono parte di qualcosa di più grande, non più liberi, autonomi e soli, ma connessi a un mondo e ad una storia antica che si perpetua anche attraverso la loro vita e proseguirà dopo la loro morte.

Oggi queste modalità di accudimento del corpo del defunto condotte da ‘esperti’ della conduzione del rito, sacerdoti laici o religiosi, hanno lasciato il campo ai servizi di imbalsamazione e ricostruzione svolti da esperti professionisti formati sui processi della decomposizione dei cadaveri e sui quelli chimico fisici della conservazione, esperti denominati tanatoprattori. Con grande maestria riportano l’aspetto delle persone a quello che avevano prima della morte, quasi non fossero decedute, donando le sembianze che il defunto aveva quando era in vita. Spesso i parenti, grati per questo, lo sottolineano: che bei lineamenti, sembra che dorma, sembra viva. La scienza bio-medica di fronte al cadavere deve ammettere che ha perso una battaglia contro la morte ma, comunque consapevole che le sorti della guerra sono ancora tutte da stabilire, si adopera con il suo armamentario tecnico scientifico per celarla, per farla apparire il meno possibile, per far sembrare il defunto ancora in vita in modo che quella sconfitta possa apparire come un trascurabile errore a cui si potrà porre rimedio al più presto.

Questo modo occidentale di svolgere il lavoro di necroforo e/o tanatoprattore è ben rappresentato da quella serie di successo dal nome evocativo: “Six feet under”. Parla di una famiglia statunitense titolare di una impresa funebre a conduzione prevalentemente familiare che, in ogni puntata, deve far fronte alle richieste, a volte anche stravaganti, che le persone in lutto fanno per cercare di onorare degnamente il proprio caro o per allontanarsi il prima possibile dal defunto e dalla morte. Il confronto tra le due realtà, quella del rito rappresentata dal film ‘Departures’ e quella dei tanatoprattori, mostra con chiarezza quanto i moderni ‘servizi funebri’ abbiano scarsa capacità di colmare di senso quell’evento doloroso che è la morte di una persona cara e, in questa debolezza, devono muoversi i nostri necrofori oggettivamente impotenti ed innocenti di fronte all’inconsistenza di questi servizi o pseudo riti. Anche questo fa parte delle difficoltà nell’affrontare e svolgere questo lavoro.

Prima abbiamo accennato al fatto che gli anziani nella nostra società spesso sono condannati ad una morte sociale prima ancora di una morte biologica. Una morte sociale che colpisce tutte quelle persone che hanno perso o tagliato tutti i legami con la comunità. Gli individui assolutamente liberi, autonomi e quindi assolutamente soli. Persone sole che non hanno nessuno che possa assistere al loro funerale. Allora può esserci qualcuno che ritiene ancora che onorare una persona defunta con un rito funebre sia necessario, buono – in un qualche modo – utile. Voler socializzare questo cruciale momento dell’esistenza umana che è la morte viene rappresentato magnificamente dal film “Still Life” di Umberto Pasolini. Il lavoro e l’impegno del protagonista è quello di ricercare almeno un parente o un amico del defunto per poter organizzare a spese del Municipio per cui lavora un funerale. Quando non riesce a trovare nessun parente o amico che voglia partecipare al funerale, partecipa lui stesso. Lui, solo, come le persone a cui desidera offrire una piccola cerimonia che possa spezzare la loro solitudine, almeno dopo la morte.

Le sue labbra vibrano e la bocca si accartoccia in un origami di emozioni incontrollabili, la testa si piega di lato, mi guarda di nuovo. Io mi sento ridicolo e inutile. Vorrei metterle una mano sulla spalla ma ho i guanti sporchi e bagnati, se anche li togliessi dovrei lavarmi … e poi non sta bene; rigetto la scena e allargo le braccia costernato; cerco di dimostrarle almeno che capisc0. Com’è difficile arrendersi alle emozioni davanti agli estranei. (Marco Frosali, Il diario di un necroforo, http://www.ildiariodiunnecroforo.it/2018/01/ Vis. 03/07/2018)

Il necroforo si dedica a offrire alle persone in lutto tutta la sua capacità e professionalità per organizzare al meglio anche la cerimonia più semplice, come fa il protagonista del film, ascoltando piccoli desideri come il mettere una lettera del figlio nella cassa, sistemare i capelli della defunta in un certo modo, insomma, attuando piccole attenzioni per dare la possibilità alla persona in lutto di onorare il proprio congiunto. In lui è ben presente una intenzione di prestare aiuto, di comprendere, di essere solidale con le persone in lutto.

Oggi il necroforo si trova a dover gestire i desideri delle persone in lutto che, nel loro sentirsi libere e autonome, si possono ispirare a una qualsiasi nuova invenzione o rappresentazione promossa dalle industrie del settore funerario, oppure gestire desideri legati agli usi della propria comunità di appartenenza, con la possibile complicazione di dover seguire usi e costumi diversi dalla propria cultura di origine in base al contesto socio-culturale di appartenenza delle persone in lutto. Insomma muoversi tra imprevedibilità e rito.

Deve riuscire a muoversi sia come una presenza competenteaccogliente quando necessario sia rendendosi quasi invisibile quando è opportuno. Oggi fare il necroforo è diventato un lavoro che necessita di abilità particolari, anche molto tecniche, e capacità relazionali significative. Purtroppo la società postmortale , tendendo a cancellare ogni aspetto che riguarda il grande nemico da sconfiggere, la morte, fatica a riconoscere come importante e significativo tutto ciò che le è connesso, e di questo ne soffre in particolare, anche se non solo, proprio il necroforo.

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