La società nella quale viviamo ci chiede costantemente di essere produttivi, di riprenderci velocemente e di ritornare quanto prima alla vita lavorativa, anche dopo la perdita di una persona cara. Il permesso al lavoro, il “tempo tecnico” che ci viene concesso è molto breve, qualche giorno, e poi ci si aspetta che quella persona possa riprendere rapidamente e tornare ad essere efficiente. La “morte TGV” così definita da Luce des Aulniers autrice contemporanea, sottolinea la velocità con la quale entriamo in contatto con la morte e la sofferenza legata all’elaborazione della perdita; l’impossibilità di soffermarsi, di riflettere, di condividere le proprie emozioni con chi ci sta attorno, ci impedisce di elaborare l’evento doloroso, lasciando dentro di noi un enorme vuoto. L’elaborazione del lutto, in realtà, ci richiede di soffermarci a riflettere sulla persona perduta, su di noi e sulla relazione che ci legava; “offre uno spazio concettuale per interrogarsi su di sé, sul proprio modo di intendere la vita, sulle modalità apprese e agire di <stare con l’altro> e di <stare in assenza dell’altro>, un nuovo modo di stare al mondo all’interno di una realtà che la morte trasforma in maniera irreparabile e irriducibile” (Bastianoni, Panizza, Catalano, 2014).
Nella nostra società, le specializzazioni in ambito medico e l’applicazione di tecniche sempre più all’avanguardia, permettono di curare malattie un tempo letali e di allungare progressivamente la linea della vita. All’interno di questo contesto, anche la cultura legata alle tradizioni è profondamente cambiata: la morte avviene sempre meno frequentemente a casa e molto spesso in ospedale e/o case di cura, luoghi nei quali la morte viene vissuta come qualcosa di esterno e lontano dalla quotidianità delle persone.
Solo negli ultimi anni, sulla spinta dei paesi nord europei ed americani, si assiste ad una sorta di contro tendenza, ad una necessità di creare degli spazi e dei momenti di condivisione, di mutuo aiuto, di riflessione che permettono alla persone in lutto di essere ascoltate, comprese, rispecchiate e capite.
Completamente diversa è la situazione in Africa, e più precisamente nello Swaziland, nazione dell’Africa del Sud, dove le vedove sono obbligate a rimanere in lutto per due anni. Infatti la tradizione politica africana impone alle vedove di non lavorare e restare “in isolamento” nei 24 mesi successivi la perdita del partner, periodo nel quale – vestite di nero – i figli venivano nutriti e qualcuno di familiare si prendeva cura di loro. Come alternativa, è possibile diventare la seconda moglie del cognato, persona “autorizzata” dalla comunità ad aiutare il sostentamento del nuovo nucleo familiare. Solo recentemente alcune donne, non avendo ricevuto sostentamenti dalle famiglie di origine, si stanno ribellando a quest’usanza per motivi economici legati alla sopravvivenza propria e dei figli. Queste rimostranze hanno tuttavia portato a situazioni di contrasto, di esclusione, di isolamento della vedova che ha contrastato la tradizione e le usanze tipiche del proprio territorio di appartenenza.
Di fronte alla morte ed alla perdita, la cultura fornisce strategie comuni, codificate, espresse e non, attivate ed agite per gestire il dolore, il vuoto, la sofferenza nel corso del tempo. La cultura fornisce modalità, percorsi, riti, attraverso i quali gli uomini condividono il dolore per la perdita.