Il fenomeno dei suicidi in carcere è una piaga che reclama risposte oramai non più rinviabili.
Con drammatica regolarità, mese dopo mese, anno dopo anno, le cronache del carcere ci restituiscono un quadro impressionante di disperazione (in Italia, il tasso dei suicidi in carcere supera di gran lunga quello della popolazione generale).
Ciò che si può cogliere con certezza in questo fenomeno è che non è sufficiente guardare all’evento morte, ma è essenziale analizzare il comportamento suicidario e i comportamenti che lo precedono e nei quali interagiscono fattori endogeni ed esogeni.
La quasi totalità dei suicidi non è legata alla disperazione di chi sa di dover trascorrere molti anni in carcere, bensì all’angoscia di un presente che nella maggioranza dei casi significa negazione della dignità umana, mancanza di ascolto e sovraffollamento.
Inoltre, il suicidio in ambito carcerario ha un’incidenza alta non solo per quanto riguarda i detenuti, ma anche gli operatori ed in primis gli agenti di polizia penitenziaria.
Il suicidio rappresenta senza dubbio un elemento disfunzionale di profondo disagio, come già detto, sia per i detenuti sia per gli operatori del carcere ed è indicativo delle difficoltà che l’Amministrazione Penitenziaria incontra nel suo mandato di istituzionale di tutela della salute e della sicurezza del detenuto stesso.
In questi ultimi anni, non solo l’Istituzione Penitenziaria ma anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno lavorato per predisporre un programma di prevenzione del suicidio in relazione alla complessità di natura oggettiva e soggettiva, partendo dal presupposto che non ci può essere prevenzione senza una visione più ampia e coinvolgente in grado di garantire l’integrazione dei servizi.
Ecco perché un programma di prevenzione non può prescindere da una iniziale conoscenza del detenuto e dalla presa di coscienza dell’azione che l’istituzione totalizzante ha sull’individuo, senza trascurare la cura delle strutture e la formazione adeguata del personale penitenziario e, in particolare, degli agenti che operano in prima linea e per questo facilitati ad individuare segnali comportamentali individuatori del rischio di suicidio. L’agente di polizia penitenziaria inoltre, proprio perché quotidianamente viene a trovarsi a stretto contatto col detenuto, deve essere necessariamente preparato all’osservazione ed al dialogo, bypassando la barriera della restrizione e instaurando con lo stesso un rapporto più umano.
Alessandra Chiaromonte