La rappresentazione scenica della morte

Il Rabinal Achi,[1] il cui nome originale è Xajoj Tun, ovvero, Danza del Tun, è un’opera teatrale che viene celebrata ogni anno il 25 gennaio a Rabinal, in Guatemala, nella regione di Baja Verapaz (Van Akkeren, R., 1999). È l’unico componimento dell’antico teatro amerindo nel quale non vi è alcuna traccia di contaminazione culturale europea (Raynaud G., 1995). Un’opera considerata fondazionale del teatro preispanico che “modula una proposta teatrale nella quale il corpo scrive la storia che, a sua volta, ricompone altre scritture corporali, quelle che si sono conservate nella memoria organica dei successivi depositari dell’opera. Costoro via via attualizzarono la retorica corporale preispanica rendendo possibile il nostro stesso riconoscimento entro una grammatica organica ancestrale” (Henriques Puentes, P., 2007, p. 105).

L’opera pone in scena una fra le pratiche religiose più importanti della cultura mesoamericana: il sacrificio umano. I desideri, i timori, le necessità delle antiche comunità precolombiane si ricomponevano in questo rito attraverso la restaurazione di un equilibrio cosmico di origine divina. Il sacrificio implicava una pratica extracorporale di alterazione della coscienza conseguito con l’ausilio di sostanze psicogene e di pratiche di alta concentrazione meditativa. Danza, musica e poesia accompagnavano i partecipanti come gli spettatori a quegli stati psichici che consentivano l’evocazione di percezioni alterate (Adje Both, A., 2008). Il suono ipnotico del Tun, il tamburo sacro, svolgeva, in questo, un ruolo di estrema importanza (Gomez, L. A., 2008). Le parole pronunciate durante la rappresentazione scenica che è anche rappresentazione rituale e che attinge i suoi contenuti al mito, sono ritenute ancora oggi fondamentali. Esse svolgono un ruolo epistemico cruciale perché si ritiene che, nella loro azione definitoria, conferiscano potere a chi le pronuncia come alle cosce designate attraverso di esse (Beristan H. e Ramirez Vidal G., 2004).

Per la mentalità maya, alla sua poetica scenica è demandato il compito di rendere attive le forze spirituali che, in armonia con il cosmo, rigenerano la vita sulla Madre Terra (Henríquez P., 2007). Si tratta, per Mercedes de la Garza (2012, p. 120), di una fra le migliori testimonianze dell’epistemologia maya. Nel 2005 è stata dichiara dall’UNESCO, opera maestra della tradizione Orale e Intangibile dell’umanità, di importanza al 2008, l’opera è iscritta nella Lista del patrimonio Culturale Immateriale. Si tratta di un dramma musicale di cui si attesta l’esistenza nel XII secolo – il periodo preclassico maya – che descrive della guerra fra due popoli: Rabinaleb e K’iche’[2]. La rappresentazione è di notevole interesse anche perché è fra le rare testimonianze teatrali che sopravvissero alla distruzione sistematica operata dai conquistatori. Si conosce dunque molto poco dell’antico teatro maya, sappiamo tuttavia che la sua semantica è strettamente connessa al mito e che aveva un esplicito fine pedagogico sociale (Castillo, F. 2001). Sappiamo anche che si faceva – e si fa – ricorso a costumi molto elaborati dal forte impatto metaforico, a maschere antropomorfe e pupazzi. La messa in scena di questo rito implicava ed implica uno stato di altissima concentrazione e di alterazione della coscienza simile a quella provocata dall’uso di sostanze psicotiche. L’intrattenimento è accompagnato da musica e danze che esaltano la narrazione con esiti di forte impatto emozionale (Castillo, J. 1941). L’opera continuò ad essere rappresentata regolarmente sino al 1625 quando fu proibita dalle autorità spagnole (Gruzinski S., 1995, pp. 26-27). Da allora, il testo venne conservato a San Pablo de Rabinal in Guatemala e venne celebrato in clandestinità sino al 1856 quando venne meno la censura. Ad oggi, la rappresentazione ripercorre gesti suoni e movimenti ancestrali attraverso i quali gli attori, in una sorta di catarsi, si spogliano della loro corporeità quotidiana per rivestirsi di quello che viene chiamato il “corpo magico”, ovvero la trasfigurazione “sciamanica” in una potentissima entità spirituale (Schechner R. 1985).

L’opera ha una struttura unitaria che fa da cornice al dialogo fra un guerriero maya del gruppo del Rabinaleb e un principe di un gruppo nemico K’iche’, catturato in battaglia e destinato ad essere sacrificato. Le sequenze si dipanano secondo una spazialità ed una temporalità non lineare, bensì circolare e talvolta a spirale. Di qui forse il senso delle danze compiute in circolo.

Il linguaggio, intensamente metaforico con suggestive pennellate poetiche, descrive il conflitto di potere fra i gruppi maya. Conflitto che si risolve, nel sacrificio del guerriero nemico, come forma di resistenza ad una forma di aggressione particolarmente odiosa.  La cornice di significazione entro la quale è indispensabile inserire il Rabinal Achi’ è il Popul Vuh, che significa “libro della comunità”. Questo testo, infatti, rappresenta lo sfondo mitologico e immaginario dell’educazione maya, la riserva di contenuti, il sistema di linguaggio che lo caratterizzano, incarna in larga parte i fondamenti della cultura ancestrale e dunque la base della formazione delle guide spirituali.

La morte come riconciliazione

Il prigioniero ha violato un patto sacro che sanciva e sancisce l’inviolabilità del territorio ancestrale, la sua sacralità. L’esercito K’iche’ ha invaso il territorio dei Rabinales provocando morte e distruzione. Il territorio violato è sensibile, per i maya di quel tempo e in larga parte per quelli di oggi (Gramigna A. 2020): i monti piangono quando le loro pendici ardono, la selva assetata soffre per il cambiamento climatico, i fiumi irrorano di energia spirituale le terre che attraversano, i campi ascoltano i ringraziamenti della comunità durante la raccolta e concedono il loro permesso se si chiede loro con animo sincero di poterli lavorare. L’aggressione immotivata dei K’iche’ è un delitto insopportabile e pericoloso perché rompe il ritmo segreto dell’universo, offende l’ordine divino. Il sacrificio del condannato fa del suo corpo l’altare di una riconciliazione fra l’umano e il divino, un corpo-spettacolo che nella purificazione rituale viene nobilitato.

Il sacrificio, quindi, rappresentava una sorta di riparazione ad un evento blasfemo che rompeva con l’equilibrio cosmico sul quale si reggeva la vita sulla terra. La vita non avrebbe potuto essere ricondotta al suo equilibrio se non ricorrendo alle sue fonti originarie: il sangue. Il sacrificio umano si può comprendere solo nella sua densità simbolica, e d’altronde è negli ambiti del rito che individuo e comunità entrano in relazione con il divino. 

La morte rituale infatti rappresentava, ad un tempo, evento di redenzione e pratica di purificazione in quanto il sangue era considerato il principio vitale che avrebbe ricomposto l’ordine cosmico e garantito la sussistenza della vita sociale.

I sacrifici cerimoniali sono comuni a tutte le antiche civiltà, se ne testimonia l’esistenza già in epoca preistorica, almeno ventimila anni fa (Tierney P. 1993).

Ma, quando gli spagnoli conquistarono l’America detta Latina furono proprio tali pratiche a giustificare violenze e soprusi, insieme al tentativo di negazione culturale dei popoli che vi abitavano. Oggi, la rappresentazione di quest’opera intensamente drammatica, non vuole celebrare né tanto meno esaltare questi usi cerimoniali. Lo scopo è quello di sondare nell’origine dei miti le forme del pensiero che organizzano la resilienza dei popoli indigeni al perdurare della spoliazione economica e simbolica di cui sono tutt’ora oggetto. Cosa di rilevante importanza formativa sia a livello comunitario che individuale. La rappresentazione scenica del Rabinal oggi non vuole giustificare il sacrificio umano. Allo stesso modo, la lettura dei canti omerici non vuole giustificare la morte di Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone sull’altare di Diana, furiosa per l’uccisione di una cerva a lei sacra. La morte di Ifigenia ristabilisce l’equilibrio infranto da un atto blasfemo e consente ai contendenti di celebrare, con la sconfitta e l’uccisione dei troiani, il più famoso degli antichi olocausti.

Nel mondo maya i prigionieri di guerra non venivano semplicemente uccisi, sacrificati. La morte non era e non è concepita come un atto, bensì come un processo durante il quale gli elementi costitutivi dell’individuo si separano poco a poco: anima, forza, sangue, carne, ossa. Ma anche elementi eterei come la luce, l’aria, il respiro, l’odore. Sono sostanze la cui combinazione, nelle antiche credenze, rendeva ogni soggetto unico e irripetibile. Ma gli umani hanno anche un cuore etereo nel quale germinano le passioni, la coscienza e l’intelligenza profonda che viene attivata nel sogno (Gramigna, A. 2019). Il sogno è considerato ancora oggi uno spazio educativo essenziale perché lì parlano gli antichi maestri ed è possibile viaggiare tanto nel passato quanto nel futuro, conoscere le ragioni di una malattia o le cause di un problema importante che colpisce la comunità. Ma la conoscenza si avvale anche delle informazioni che i sensi captano dall’ambiente e che la coscienza elabora. 

È considerevole il fatto che le facoltà cognitive, emozionali e sensibili sarebbero di pertinenza di differenti elementi o anime le quali, se non sono fra loro in armonia, produrrebbero conoscenze errate o squilibri mentali. Anime e forze vitali possono abbandonare il corpo in via transitoria, come accade per esempio durante la celebrazione dei rituali, come è il caso del Rabinal Achi’, o durante la meditazione.

Ma, possono anche lasciare il corpo in forma definitiva, con la morte.

I defunti si avviavano verso un altro mondo ed è per questo motivo che venivano sotterrati con tutti gli oggetti distintivi del loro rango o che li hanno accompagnati durante la loro vita terrena, insieme ai cibi, ceramiche, armi, maschere e gioielli di giada. Il corpo del defunto veniva ricoperto interamente con un pigmento rosso che si riteneva fosse utile per la realizzazione del viaggio verso oriente, normalmente identificato con il colore appunto rosso. Dall’oriente giungono le piogge che fecondano i campi, lì ogni giorno il sole rinasce. Il rosso probabilmente era simbolo di rinascita. 

Le ragioni educative

Molti fra i miei studenti pure affascinati da queste culture ancestrali mi chiedono come possano aiutarci a capire il presente educativo dei nostri futuri educatori. Io rispondo loro che lo studio di paradigmi educativi così lontani ci aiuta a comprendere il senso profondo dell’educazione e delle sue prassi. A volte insistono a chiedermi come possono i Maya vivere nel mondo contemporaneo essendo così radicati in un passato mitico. Io rispondo che le persone delle comunità indigene che ho conosciuto vivono in un eterno presente perché la nozione del tempo non è lineare, è circolare. Per gli indigeni Maya non ha senso proiettarsi nel domani perché nulla può mutarne il senso, in quanto il suo significato profondo non ha nulla a che vedere con le lancette dell’orologio e non coincide con quello del passato che tornerà, che è già tornato. Ed è un senso esistenziale, qualitativo. Cioè si concepisce per le relazioni che intrattiene con le vicende della comunità. Paradossalmente è un senso qualitativo e non temporale. L’incontro con la differenza, l’analisi, la diafanizzazione delle implicazioni epistemologiche sul piano dell’educazione è il nostro obiettivo perché ci consente di costruire le connessioni utili ad orientarci nel mondo plurale che abitiamo.

In queste pagine, ho cercato di elaborare i presupposti epistemici per chiarire che nel territorio della differenza non c’è spazio per il folklore consumistico o l’effimero gusto dell’esotico. Nell’analisi di quest’opera teatrale abbiamo cercato di offrire ai nostri studenti le basi per una conoscenza complessa, metacognitiva, sistemica. Ben lontana dal tecnicismo strumentale e facile sul quale hanno allenato il loro pensiero. Con questo studio, abbiamo tentato di porre i nostri giovani interlocutori a contatto con un sistema di credenze simboliche differente dal nostro. E’ questa la conoscenza complessa che l’educazione interculturale richiede, al di là di qualsiasi manuale delle istruzioni o ricettario didattico. Nella Danza del Tun abbiamo potuto esplorare il senso esistenziale della Morte, che vincola il soggetto alla vita, alla trascendenza, alla determinazione della realtà e alle conseguenze che l’agire umano esercita sul mondo. Ovvero abbiamo sondato gli ambiti dell’antropologia educativa, dell’epistemologia, dell’ontologia e dell’etica. Sono gli ambiti nei quali e attraverso i quali studiamo l’educazione.

Quest’opera teatrale è, in quest’ottica, un efficace esempio di costruzione, organizzazione, divulgazione e – nel suo ineludibile sincretismo – tras-formazione del sapere educativo. Siamo convinti che conoscere questa conoscenza possa aiutarci ad allestire un processo di affinamento delle competenze interculturali, perché nel confronto con la cultura ancestrale dei Maya possiamo elaborare paradigmi di lettura, comprensione e orientamento nella differenza.

Infine, abbiamo studiato il Rabinal Achi’ con una intenzionalità più estetica che interessata a stabilirne il tasso di verità. L’estetica, infatti, non cerca l’universalità in una comunità, bensì i suoi segni paradigmatici ad alto spessore simbolico. La prospettiva estetica ci è congeniale perché è intensamente relazionale in quanto coglie nessi di significazione fra fenomeni, individui e culture. Si tratta di un approccio che valorizza le differenze come segni irripetibili ed autentici dell’avventura umana nel suo versante formativo, di conseguenza è in grado di cogliere i significati nella diversità rispetto alla propria identità culturale, etica, sociale. Si tratta di un orientamento dell’analisi che non parte dal proprio punto di vista pensato come esclusivo, o come detentore del massimo significato, ma anzi che può spostarsi alla ricerca di significati altri che lo possano arricchire. Il fine educativo è in una sensibilità interculturale in grado di esercitare sul soggetto un’auto-osservazione costante, umile, lucida e appassionata.

Anita Gramigna

Bibliografia

Adje Both, A., (2008), La musica prehispanica. Sonidos rituales a lo largo de la historia, in “Arqueología mexicana”, Vol. XVI, numero 94. México: noviembrediciembre.

Beristan H. e Ramirez Vidal G., (2004), La palabra florida. La tradicion retorica indigena y novohispana, México, UNAM-IIF.

Castillo, Jesús. (1941), La Música Maya-Quiche. Editorial Cifuentes, Quetzaltenango, Guatemala. 

Castillo, F. (2001), Teatro maya peninsular, in “Revista De L’associació D´investigacio i Experimentacio teatral” (29), 149-154.

Gramigna A. (2020), L’educazione olistica. Dialogando con Don Felipe Poot, sacerdote maya, in “Formazione & Insegnamento”, a. XVIII, n. 1, pp. 107-118. Gramigna A., (2019), Il versante onirico della conoscenza. L’educazione nel mondo ancestrale dell’America Latina, Roma, Aracne.

Gramigna A. (2017), Alla destra e alla sinistra del sole. L’humus ancestrale dell’educazione presso le popolazioni Maya, in G. Poletti, (a cura di), Il patrimonio dell’intercultura tra metodo e strumenti. Il dialogo tra Globale e Locale, Ferrara, Volta la carta, pp. 29-44.

Gramigna A. e Y. Estrada Ramos (2016), Epistemologia della formazione e Metodologia della ricerca. Un’indagine presso la popolazione Maya Kaqchikel del Guatemala, Milano, Unicopli.

Gruzinski S. (1995), La colonización de lo imaginario. Sociedades indígenas y occidentalización en el México español. Siglos XVI-XVII, México D.F., Fondo de Cultura Económica.

Henríquez, P.  (a cura di), (2008), De la escena ritual a la teatral en una obra de teatro indígena prehispánica: Rabinal Achí o Danza del Tun, en “Aisthesis. Revista Chilena de Investigaciones Estéticas”, 44, pp. 67-81.

Henríquez, P. (a cura di), (2007), Teatro maya: Rabinal Achi o Danza del Tun, in “Revista Chilena de Literatura”, 70, pp. 79-108.

Raynaud, G. (1995). “Apéndice”. Teatro Indígena Prehispánico, México D. F. Dirección General de Publicaciones. Universidad Nacional Autónoma de México, 1995.

Schechner, R. (1985), Between Theater and Anthropology, Philadelphia, University of Pennsylvania Press.

Tierney P. (1993), O Altar Supremo. Uma Historia do Sacrificio Humano, Lisboa, Editora Bertrand Brasil.

Van Akkeren, R., (1999), Sacrificio all’albero del mais: Rabʼinal Achi nel suo contesto storico e simbolico, in “Antica Mesoamerica”, New York, USA, Cambridge University Press.

Van Akkeren, R., (2000), Sacrificio all’albero del mais: Rabʼinal Achi nel suo contesto storico e simbolico, in “Mesoamerica”, 40, pp. 1-39.


[1] Qui si fa riferimento al testo Edito nel 2015 dall’Universidad Nacional Autonoma de Mexico.

[2] Il termine significa molte foreste e fa riferimento all’unione di tre tribù.

Tags: